NON PSICOLOGICA

 

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della mente umana

 

 

                                               Negatorietà e negazione

 

In questo capitolo andremo a comprendere il complesso fenomeno della negatorietà nei comportamenti relazionali. Questa tipologia di comportamenti e intenzioni espresse, nascono con uno scopo difensivo e si sviluppano e si vestono di molteplici maschere, anche contraddittorie tra loro. Nel suo insieme, la negatorietà è composta da tutti quegli atteggiamenti in cui un individuo, in vari modi, cerca inconsapevolmente di prevalere su un altro. Com'è noto, le relazioni tra persone sono composte di due fattori, uno cognitivo rappresentato dalle parole, i concetti e gli argomenti che si esprimono, l'altro, non esplicitamente cognitivo basato sulle intenzioni implicite, la comunicazione non verbale, gli atteggiamenti e le posture che la persona assume durante la frequentazione. Spessissimo, più di quanto non si creda, le due aree espressive sono molto incoerenti tra loro. Ad esempio, è facile vedere come una persona che dice 'si' a parole, contemporaneamente esprima un 'no' con la testa, oppure che mentre viene narrata una cosa positiva, l'espressività non verbale comunichi noia oppure svilimento. Le due forme comunicative, esplicita-cognitiva e implicita non-verbale viaggiano su binari molto separati. Sostanzialmente la differenza delle due forme compresenti di comunicazione, sta nella loro funzione: la prima esprime il pensiero, le convenzioni sociali e le condizioni esplicite, la seconda invece, ha lo scopo di trasmettere tutta la grande massa emozionale di quello che si muove al di sotto della sfera cosciente. Se una persona per esempio è in apprensione, anche se non se ne accorge, lo comunica, proprio con quella struttura articolata e potente della parte non-verbale del suo comportamento. Quando parliamo della componente del non-verbale, in realtà ci sono incluse della parti di espressioni verbali e cognitive che seppur facenti parte della sfera della comunicazione esplicita, non sono guidate dalla parte cognitiva, ma da quella direttamente emozionale. Nelle espressioni esplicite del parlare, della sintassi, e della capacità di sintesi o al contrario della prolissità, abbiamo una grande serie di segnali che caratterizzano la trasmissione emotiva anche in quest'ambito. Questi segnali, per la loro caratteristica espressiva e intenzionale, ma non cosciente, si definiscono segnali para-verbali. Attraverso di essi la persona inconsapevolmente trasmette un 'senso' aggiuntivo alla narrazione che fa. Ad esempio, una stessa frase si può comunicare in modo positivo o drammatico, modificando la forma della espressività verbale. Qualche volta, questa modulazione del significato implicito è volontaria, ma molte volte invece non lo è affatto. Pertanto, quando   un  individuo percepisce qualcosa di potenzialmente sgradevole (proiezione), si accendono una catena di fenomeni comportamentali difensivi. Con particolare evidenza, troviamo una serie di posture nell’espressività  non-verbale, della parte para-verbale e  corporea  che  esprimono,  attraverso una serie di rappresentazioni verbali e di trame competitive, la “negazione dell’altro”. Questa negazione è un po come dire senza dirlo 'soffro, mi dai fastidio, non esisti, quello che pensi è sbagliato,  quello che dici  non  mi  importa,  ecc.'.  L'individuo  esprime e  comunica  in  modalità non-verbale la necessità di prevalere, a prescindere da quale sia il contenuto che sta tentando di esprimere. Ma cosa centra il 'prevalere' come sistema di difesa? Funzionalmente, prevalere rappresenta avere il controllo emotivo sulla situazione proiettata sull'esterno (ma che in realtà è interiore). La “negazione dell’altro” risulta quindi un atteggiamento, che ha lo specifico intento di allontanare la propria evocazione emotiva o sentimentale che si è accesa all’interno della persona stessa. L’atto di negazione che si viene a esprimere risulta duplice in quanto il tentativo è rivolto  contemporaneamente  all’interno  di  sé nell’allontanare la propria evocazione proiettiva, e all’esterno negando l’altro. Questo complesso di fenomeni può essere definito “negatorietà”.

A differenza invece, la 'negazione' è un atto diretto ed esplicito con scopi cognitivi chiari. La persona che esplicitamente nega qualcosa rende palese la propria intenzione e atteggiamento, permettendo direttamente la reazione e il dialogo con l'altra persona.

 

Vediamone ora degli esempi di rappresentazioni concrete. Analizzeremo la competizione sportiva e quella interpersonale involontaria come porzione espressa della negatorietà relazionale. 

 

Nella competizione, in tutte le sue forme, solo uno dei due vince, mentre gli altri a vario livello perdono tutti. Tralasciando la retorica sociale della funzione positiva della competizione e del miglioramento personale, in quanto muovono proprio da presupposti in cui non si è mai abbastanza bravi e capaci (negazione preventiva sulla persona), andiamo a guardare gli aspetti più profondi e interessanti di questo contesto. Uno degli aspetti caratterizzanti della competizione è proprio il fatto che si genera una dualità rigida dove solo uno emerge come migliore sugli altri. Sembra una banalità, ma al contrario gli effetti sono tutt'altro che banali e scontati. Per prima cosa, il grande effetto imprevisto (a livello emotivo) è che la soddisfazione della vincita dura sempre poco, richiede molto sforzo e avviene raramente, mentre il perdere, alla fine, è l'unica cosa certa che accade frequentemente e rimarrà la condizione normale. Nel tempo, l'unica cosa garantita è che non si può essere sempre vincenti, mentre si può vivere benissimo essendo sempre nel 'di mezzo' dei perdenti. Altro fattore interessante nel dinamismo competitivo sportivo è che il soggetto applica, insieme ad un grande sforzo per  vincere, una forte negazione delle proprie complesse necessità della vita, diviene mono-tematico, a volte ossessivo rivolto all'obiettivo. Questo particolare stato genera un rimandare ad altri periodi le normali necessità del quotidiano, implica il traslare nel tempo tutti quegli impegni, che di fatto costruiscono la crescita interiore e il proprio futuro e nel complesso il proprio essere e vivere se stessi. Ma per fortuna, nella competizione sportiva c'è anche una forte consapevolezza del relativo valore del vincere e perdere, pertanto la persona ne vive lo stesso gli effetti con soddisfazione e l'equilibrio interiore spesso non ne viene intaccato più di un tanto.

 

Ma cosa succede quando la competizione diviene su un piano personale tra persone non sportive? Per cominciare abbiamo da comprendere che cosa guida la nascita di questa spinta. Nel paragrafo sopra abbiamo individuato che lo scopo della competizione è difendersi da una minaccia, quella di sentire/percepire/scoprire che non si è all'altezza, non si è 'migliori'. Quindi, quando nel mio sistema interiore avverto questa sensazione, la mia parte cognitiva si attiva per verificare/dimostrare/compensare questa preoccupazione, cercherò quindi di testare il mio valore. Solo in questo modo posso ristabilire il mio equilibrio interiore. Ma, come è possibile compensare o  correggere una proiezione (la preoccupazione) se nemmeno mi accorgo che sta avvenendo? Infatti, non si può, bisogna prima imparare ad osservare il fenomeno e poi imparare e vederlo su di sé. Che differenza c'è tra un confronto positivo tra due persone e la dinamica competitiva? La differenza è moltissima. In un rapporto di scambio non negatorio, il criterio che guida i comportamenti è l'ascolto. Ad esempio, Tizio vuole acquisire informazioni, idee, e Caio le esprime. I due possono alternarsi in questo dinamismo, ma permane l'intenzione reciproca di scambiare e confrontare i loro pensieri in maniera elaborativa, collaborativa e ciascuno cerca di portarsi a casa qualcosa dalla conversazione/collaborazione. Se invece la relazione ha una impostazione competitiva, il criterio che guida la relazione è il prevalere, oppure la richiesta di attenzioni. L'ascolto viene richiesto ma in una modalità a senso unico, tipo 'tu ascolta me, ma io non sono interessato ad ascoltare te'. In questa condizione avvengono delle particolari segnalazioni comportamentali della parte non-verbale, come ad esempio il parlarsi sopra, non aspettare la fine della frase dell'altro, l'aumento del tono vocale e un insieme di atteggiamenti che comunicano lo scarso interesse agli argomenti dell'altro (mancanza di ascolto). Per fare un esempio, Tizio esprime ciò che vuole comunicare, ma Caio lo interrompe o lo incalza con qualche questione, Tizio rilancia e insiste, e Caio sposta il tema su un altra argomentazione. Allora Tizio si zittisce un po', poi rilancia un contro-argomento, ma Caio non lo segue e aumenta il tono vocale per mantenere il filo del discorso... e così via. I due alla fine saranno frustrati, oppure entusiasti perché la dinamica competitiva non è negativa, può anche essere una condivisione di entusiasmo in una corsa di moto, o di calcio, o un avventura, ma la parte interessante è che ciascuno dei contendenti cerca l'approvazione dell'altro, cerca di prevalere sull'altro, in un sistema in cui però, la negazione e lo scarso ascolto, sono la grossa parte comunicata (qualcuno lo definisce come egoismo). Nei momenti in cui la relazione diviene competitiva, si attivano quindi dinamiche di tipo negatorio. La competizione, che tutti ritengono un fattore positivo e di crescita, personale e collettiva, in realtà contiene delle forti deviazioni, che, nei rapporti umani, causano non poche difficoltà. Due soggetti che interagiscono competitivamente, sviluppano automaticamente una posizione gerarchica, definendo chi sta sopra e chi sta sotto, chi vince e chi perde, chi ha ragione e chi ha torto. Da un lato, questo dinamismo si rappresenta come valido, finché l'analisi si limita alle sole condizioni concettuali e intellettuali; dall'altro lato, la competizione assume significati assai diversi, nella relazionalità dell'attenzione, del potere e dell'affettività. Ma cosa c'è di male nei dinamismi competitivi? Questa disparità inconsapevole e/o ineluttabile, diviene un meccanismo umiliante per il soggetto che subisce e proietta la propria inadeguatezza. Vi sono molti modi di condividere informazioni o di comunicare e la competitività è un modo articolato ma specifico. I comportamenti competitivi si caratterizzano per avere specifiche finalità e specifiche intenzioni. L'individuo competitivo mira inconsapevolmente all'autoaffermazione, adottando le proprie performance per confermare e soddisfare questa condizione. Come già compreso si ha un doppio livello dell'intenzionalità  e dobbiamo considerare che “autoaffermazione” e “soddisfazione” non hanno un'accezione positiva ma funzionale alla riproduzione del modello emotivo individuale, anche quando questo è volto a produrre la sconferma di sé e la propria stessa frustrazione (modello conflittuale o modello vittimistico). Il comportamento competitivo muove dalla profonda “paura” ossia l'abitudine di pensare di non essere all'altezza e, su questa potente spinta, utilizza strutture funzionali come gli stereotipi, la cultura, la morale e complessi schemi comportamentali manipolatori come nel vittimismo manipolatore. In altre parole, questi comportamenti utilizzano contemporaneamente ogni strumento cognitivo a disposizione, per definire e detenere un potere di superiorità (compensazione del senso di inferiorità). Se questa pratica, però, fosse efficace nel dare soddisfazione e compensazione alla paura di inadeguatezza, l'individuo andrebbe facilmente a dismettere questi comportamenti ed evolverebbe verso una appagante soddisfazione felice; purtroppo, ciò non accade. In realtà, il fenomeno competitivo, essendo mosso dalla paura, in questa stessa emozione si sviluppa e consolida. Come visto in diversi altri comportamenti, le dinamiche che scaturiscono per compensare gli effetti della paura producono situazioni e feedback che la confermano, legittimano e ne consolidano la struttura. Spesso si attua un equivoco culturale, per cui la competitività viene associata alla curiosità: nel confronto continuo con gli altri viene presunto che si realizzi una crescita reciproca, in una moltitudine di stimoli volti a spronare le proprie abilità. Al contrario invece, la competitività è un dinamismo negatorio nel presupposto, che, pone il confronto tra individui sulle misure del sapere e/o delle attività/abilità e focalizza lo stato di non-sufficienza della bravura, come metrica di valutazione: un circolo vizioso. Com'è intuibile quindi, il vero motore di questo stato è la sensazione di inadeguatezza (spinta della paura -emozione primaria) e non la curiosità evolutiva (emozione primaria).  Il sapere e le attività, quando vengono agiti in seno a una passione guidata dalla curiosità evolutiva (emozione primaria), al contrario delle dinamiche attivate dalla paura, non essendo strutturati sulla sensazione di inadeguatezza, non sviluppano comportamenti di confronto o competizione, e spesso, le attività strutturate su questa base rimangono riservate (cioè l'individuo non ha bisogno di renderlo noto all'entourage). Un'altra differenza che caratterizza queste diverse posture rispetto al sapere/attività, sta nel fatto che nella attività cognitiva mossa dalle dinamiche della paura, vengono utilizzati copiosamente gli stereotipi, mentre quando invece sono attivate dalla curiosità evolutiva, l'individuo sviluppa le proprie capacità indipendentemente dagli stereotipi e dalle probabili aspettative sociali che normalmente sarebbero espresse/associate intorno a quel genere di abilità. Lo sviluppo dei sistemi relazionali basati sulla competitività, assai spesso diviene un complesso di dinamiche seduttive, in quanto la persona, essendo guidata dal bisogno di compensare/riprodurre una data lacuna di modello emozionale, identifica nel feedback che ottiene dall'entourage la misura della propria abilità - anche quando questo conferma la propria inadeguatezza. In altre parole, l'individuo competitivo non si accorge dell'aspetto compensativo del proprio agire e, inconsapevolmente, riproduce proprio la sofferenza che cerca di compensare. Da un punto di vista dinamico, nella relazione competitiva, uno degli interlocutori assume il ruolo di inetto, di quello che ha sbagliato, di colui che non ci aveva pensato. Di per sé questo può non apparire come grave o drammatico, ma, di fatto, la competizione rappresenta un modo di affermare se stessi sul prossimo, negandone le abilità e il valore.

 

La pervasività dei dinamismi competitivi investe anche fenomeni che vengono riconosciuti socialmente come relazioni di aiuto positive, come offrire i propri consigli o aiuti a qualcuno che sembra averne bisogno. La differenza tra la postura competitiva negatoria e l'aiuto autentico sta nel fatto che nel primo caso chi riceve l'aiuto ne percepisce un'intenzione controversa, ossia, contemporaneamente, la soluzione e la dimostrazione dell'inadeguatezza, mentre nel secondo caso chi riceve l'aiuto ha la percezione di avere ottenuto una soluzione, senza soffrire dell'evidenziazione della propria difficoltà/incapacità. Nell'ambito del modello culturale educativo/familiare e formativo scolastico, dobbiamo focalizzare che l'acquisizione delle informazioni e delle abilità ha (o dovrebbe avere) come scopi, il produrre un'autosufficienza interpretativa della realtà e il generare un bagaglio esperienziale efficace, come fondamento della capacità di individuazione. In pratica in  una persona, la sua capacità di indipendenza nelle relazioni interpersonali, la sua capacità di ponderare e scegliere, la sua capacità di ascoltare e apprendere. L'indipendenza emotiva, a livello di identità rappresenta la reale alternativa al confronto competitivo, poiché solo la completezza delle esperienze genera l'identità psicologica dell'individuo; al contrario, un'identità psicologica scarsamente sostenuta dalle esperienze, infonde alla persona instabilità emotiva e bisogno di compensazioni di altra natura. Le esperienze astratte e indefinite non comportano assolutamente l'identificazione emotiva (esperienze elaborate) e psicologica della persona, che soffrirà di un forte bisogno di compensazione, che quindi utilizzerà preferenzialmente le dinamiche competitive come tentativo di sistema compensatorio. Una riflessione interessante ruota intorno alla presenza di dinamismi morali nell'insieme della dinamica competitiva. Le dinamiche relazionali competitive sono intrise di legittimazioni morali auto-prodotte e, proprio per questo, tendono a non determinare una reale condizione esperienziale evolutiva; la paura mantiene la sua efficacia nel dominare pensieri e comportamenti, i feedback vengono quindi condizionati nel confermare la sensazione di inadeguatezza e l'individuo è costretto a implementare la propria spinta morale per auto-legittimare la forte necessità di benessere.

 

L'esempio che segue è stato raccontato da un nostro utente, protagonisti, padre e figlio. Il figlio sta costruendosi un oggetto in legno. Il padre passa dal garage e gli dice: 'Senti, quando smetterai  di giocare , vieni a darmi una mano'.  Il figlio, che si faceva serenamente gli affari suoi, si incacchia immediatamente. Perchè si arrabbia ? L'affermazione del padre è implicitamente svalorizzante poiché descrive implicitamente la disapprovazione su quanto stava facendo il figlio, che invece con tutta sicurezza, si aspettava dal papà un commento positivo di approvazione o almeno di interessamento. Al contrario l'atteggiamento del genitore, corrisponde ad una sommaria negazione dei gusti e delle capacità del figlio. Dove sta la negatorietà e la conseguente manipolazione del modello emotivo?  Essa sta nel fatto che dalla espressività del padre e dalla sua frase, risulta implicito che solo ciò che fa il padre sia importante, quindi si modella di conseguenza l'emotività reattiva del figlio, nel percepirsi come genericamente inadeguato e tentare di riscattarsi su questo presupposto indotto.

 

                                           Negatorietà nella morale

 

Perché leghiamo il concetto di negatorietà con il sistema della morale? Nei  dinamismi e nei  comportamenti  dell’interazione umana, troviamo che il pensiero morale , ponendosi al di sopra di altri, caratterizza un sistema di discriminazione. Essa si innesta sul tessuto linguistico e crea un impianto normativo. Dobbiamo ora distinguere la funzionalità sociale e collettiva di questo potente regolatore  dal  suo  significato  nella  morfologia  dei  dinamismi mentali e la sua possibile ipertrofia, con la conseguente nascita di concetti come 'problema', 'patologia', ecc. Nella collettività occidentale la morale svolge un ruolo molto importante. Essa diviene fulcro cognitivo ogni qualvolta si profili una qualche conflittualità o questione da risolvere. La morale aiuta l’individuo a discernere le proprie scelte e  a definire la propria scala valoriale. Quanto appena detto rappresenta la condizione stereotipata di questa area filosofica; ora, inizieremo a sviscerare e comprenderei retroscena e i loro effetti nella psicologia e nelle dinamiche relazionali. La morale anzitutto diviene una forma di discriminazione, in quanto, per sua conseguenza, vi è sempre qualcuno che per qualche ragione rimane “escluso”, “sbagliato”, “colpevole”. Per questa propria natura di selettore, la morale focalizza sempre e, purtroppo, spesso implicitamente, una scala dove qualcuno sta sopra e qualcuno sta sotto. Come sosteneva Nietzsche in Genealogia della morale, essa è uno strumento che nasce per consolidare la relazione tra un debitore e un creditore. Risulta implicito che qualsiasi gesto, analizzato e compreso nella sua valorialità morale, definisce chi è dal lato buono e chi non lo è. Paradossalmente, prendendo a esempio la figura del missionario, possiamo notare che il suo sacrificio e l’attività benefica della missione si strutturano e vivono in seno ad un grande dislivello con il beneficiario dell’attività  missionaria.  Le  persone  da  aiutare  divengono,  in questa  attività,  quelle  che  sono  in  qualche  modo “inferiori”, quindi “sbagliate”, da“correggere”, da“aiutare”. Questa generica definizione crea un panorama particolare, dove gli individui che devono essere aiutati si trovano a percepire il loro stato di inferiorità e spesso anche a crederci. Questo stato è  l’effetto diretto di un atto, socialmente condiviso, dove l’attività discriminatoria ha pieno effetto e produce un pesante divario tra chi si sente e diventa effettivamente “inferiore” e chi ha sancito arbitrariamente questa “inferiorità”. Oggi tutti sappiamo che la differenza culturale non definisce affatto una superiorità o  un divario, ma al contrario, definisce un’identità da rispettare. Nei rapporti personali, implicitamente in ogni scelta, si pone un analogo fattore discriminante, che a vari livelli di pesantezza e gravità, agisce delle forme di negazione diretta. La morale, nel suo uso teoricamente rivolto a identificare “il meglio per tutti”, genera e alimenta il peso del sentirsi inclusi in qualcosa (gruppi, appartenenze, branchi) e, contemporaneamente l’esclusione, il senso di colpa, il senso di inadeguatezza e tutte quelle situazioni nelle quali la persona si sente giudicata. La morale fornisce una catena di percezioni dove la persona è in grado autonomamente di fare il “processo”  a ogni segmento della propria e altrui vita. L’uso della morale definisce sempre la negazione di qualcosa e, in questa direzione, possiamo comprendere che nei rapporti umani, la negazione assume un senso funzionale particolarmente interessante. Nel momento in cui due persone vivono una scelta, per quanto essa sia elementare, uno dei due soggetti verrà negato, anche magari solo minimamente, poiché nella relazionalità solo uno dei due può prevalere, anche quando, in una complicità, apparentemente sembra non essere così. Dove c’è una condizione morale, c’è sempre una negazione; la morale istituisce un confronto che diviene competizione, nella quale per forza c’è un prevalente e un prevaricato. La morale nasce nella definizione del dualismo tra bene e male; di conseguenza, chi non fa parte dell’area del bene, è direttamente nell’area del male. Nella pratica del quotidiano, la negatorietà a carattere morale viene usata nell’esercizio del potere  relazionale,  sia  di  tipo  familiare  sia  sociale  nell’entourage, nell’amore e in tutte quelle situazioni dove la persona in qualche modo vi si appella quando ha bisogno di conferme oppure di influenza. La morale sancisce regole per il funzionamento dei rapporti di lavoro, nel sostenere e sostanziare le gerarchie, definendo la superiorità e l’inferiorità, e contemporaneamente, definendo la soddisfazione e la frustrazione, l’affermazione di sé e l’alienazione. La negatorietà di tipo morale produce una serie di doveri che, nella loro astrattezza, impersonalità e formalità, si contrappongono di fatto ai bisogni interiori della persona. Nelle attività collettive,  siano esse familiari o sociali, i bisogni dell’individuo rientrano solo parzialmente nella scala dei valori e al contrario, tende a dominare il concetto morale di bene comune. La stessa ideologia del benessere non è calibrata sui bisogni individuali, ma anzi su valori stereotipati che implicano il sacrificio e la frustrazione dei bisogni individuali stessi (produttività, PIL, benessere economico, competitività sul mercato, sicurezza, disciplina, leggi, giustizia…). Bisogna sottolineare il fatto che i bisogni individuali spesso non sono riconosciuti dalla persona stessa, che li confonde con gli stereotipi e le abitudini per effetto della loro condivisione collettiva, che ne deforma la percezione. Assistiamo frequentemente, per esempio, a persone che sono disposte a sacrifici di mesi pur di ritagliarsi una settimana di relax. Questo esempio evidenzia la paradossalità di un benessere conseguito attraverso un affaticamento, in cui il relax è insufficiente a compensare la fatica profusa. Il sacrificio e il merito si configurano quindi come due aspetti conseguenti, dove solo se si soffre si merita poi di stare bene; tuttavia, queste due dimensioni, di fatica e di benessere non sono assolutamente proporzionate. In questo esempio, la struttura morale definisce il supremo valore del “bene” del benessere, legittimato moralmente e guadagnato attraverso il precedente sacrificio. Addirittura, possiamo definire che la condizione morale e i bisogni individuali oggigiorno siano quasi antitetici. Ci potremmo allora domandare come mai la dimensione morale sia così diffusa e imprescindibile, dal momento in cui essa frustra i desideri e i bisogni individuali. La risposta risiede nella relazione che si istituisce tra l’imposizione di un dovere prefigurato e astratto e la struttura linguistica e normativa del Superego. Nelle sequenze di atti e percezioni delle relazioni tra persone, avviene che l’individuo si trovi a dover continuamente compiere scelte. L’attività comunicativa, fin dal suo esordio nella relazione di un determinato momento, è già definita da una condizione morale. Per esempio, due persone che si incontrano si trovano a non avere scelta se salutarsi o meno. Che lo facciano o che non lo facciano, le normative implicite che determinano le caratteristiche del comportamento sono comunque in atto. La condizione morale agisce e interagisce nel sistema super-egoico delle normative, a prescindere dalla nostra consapevolezza diretta. Ogni nostra scelta e postura nasce in chiave a-morale sotto la spinta di uno stato emotivo, ma viene immediatamente collocata, interpretata e definita e riposizionata secondo una posizione moralmente accettabile per l'entourage. Questa condizione dia-sintonica tra la spinta generatrice di un comportamento e la normativa che moralmente lo legittima è ciò che impedisce alle persone di riconoscere concretamente i propri dinamismi emotivi. Troviamo che, per effetto di una cultura generale nella quale l’aspetto morale ha il sopravvento sulla comprensione delle funzionalità e degli scopi dei dinamismi emozionali. I comportamenti sono considerati validi perché legittimati moralmente; purtroppo però, sappiamo che frequentemente viviamo in uno stato di contraddizione, dove le esigenze, i bisogni e la realtà che percepiamo sono in palese dissonanza. In altre parole, assistiamo frequentemente al fatto che in diverse fasce di età le esigenze e i bisogni di una persona agiscono emotivamente in una certa direzione, ma al contrario, le posture morali tendono a negarli. Questa contraddizione tra il bisogno individuale e la “retta via” diventa uno stato di anomalia che porta l’individuo verso il disorientamento nella percezione di sé, dei propri bisogni e della propria posizione. Gli stati di anomalia, ossia quelli in cui i bisogni sono in esplicita contraddizione con i precetti morali adeguati, fanno percepire all’individuo che le sue esigenze sono moralmente insostenibili, e questo genera fortissime sofferenze. Con il crescere della lacerazione identitaria conseguente, l’individuo vive una proporzionata amplificazione della sensazione che non vi siano possibilità di lenire il proprio disagio e dolore. La sofferenza che si genera in questa sequenza diventa così forte da obbligare l’individuo a deformare la  maggior  parte  della  propria  percezione  di  sé,  strutturando problemi e soluzioni sempre più sulla base di costrutti di tipo morale (ideologizzazione) piuttosto che pragmatici di tipo evolutivo. La persona attanagliata dalla sofferenza, deve trovare una via di uscita dal proprio stato, ma essa non può essere in contraddizione con l’assetto morale sociale, anche se, paradossalmente, la via di uscita non appartiene alla visione morale della situazione. A questo punto possiamo porre la seguente domanda: perché la via di uscita da un problema non appartiene alla visione morale  della  situazione?  Ricordiamo  che  la  sofferenza  obbliga l’individuo alla ricerca di una soluzione, la quale nella sua più immediata definizione tende a collocarsi in due aree, alternativamente quella della vendetta e del vittimismo, entrambe nelle loro varie forme. Queste opzioni di reazione sono ambedue moralmente non valide allo sguardo della collettività proiettiva e ai precetti della più comune educazione. La morale pone un binario obbligatorio in cui si rappresentano i problemi e soluzioni. Ossia, la drammatizzazione dell’evento generatore di sofferenza e l’urgenza di una sua soluzione dignitosa, sono deformati dalla morale, limitando, se non addirittura impedendo, la percezione dei bisogni e delle dinamiche emozionali reali dell’individuo. Se da un lato la morale pone dei precetti prefigurati e indiscutibili, che quindi non vengono messi in discussione ogni volta, dall’altro essa, con la sua rigidità e universalità  generalizzata,  deforma  la  percezione  del  dolore,  del problema e delle forme della sua soluzione. Ne risulta che le reazioni possibili che esulano dal binario tracciato dalla morale sono condannate e considerate poco praticabili. Contestualmente questa rigidità della morale sociale pone le basi di una forte attrattiva per la trasgressione della morale stessa, in quanto area 'liberatoria' dal gravame oppressivo di un atteggiamento sociale percepito come opprimente. Come vedremo in seguito, le difficoltà e le sofferenze sono fortemente legate ai fattori della percezione e pertanto, quest’ultima costituisce l’area su cui concentrare le nostre attenzioni.

 

Questo è il caso del Sig. G., manager in una grande azienda, che conobbi perché voleva superare una difficoltà con un suo collega. Il problema relazionale era identificato con il fatto che durante qualsiasi tipo di dialogo tra i due il collega di G., che chiameremo A., lo incalzava e anticipava le ultime parole della frase. Questo fatto metteva G. in forte difficoltà, al punto che si arrabbiava e nell'arco di sei mesi cercò di evitare qualsiasi dialogo con A. Il Sig. G. credeva che fosse un problema suo, di avere sviluppato una difficoltà nell'esprimersi; pensava di avere abbassato la propria autostima. Questa situazione nel suo complesso lo disorientava. Il rapporto tra G. e A. era un rapporto che per varie ragioni era divenuto nel tempo sempre più di competizione: tra i due il lavoro era a rapporto ravvicinato e questo metteva uno stato di eccitazione in A. che emotivamente esercitava una pressione su G., che si vedeva incalzato nei dialoghi. Naturalmente A. non si accorgeva di esercitare questo atteggiamento, non sapeva di precorrere le finali delle frasi di G. e pertanto non si accorgeva che metteva fretta al suo collega. Infatti G. aveva sviluppato inconsapevolmente una reazione emotiva verso il senso di inadeguatezza che A. gli produceva mettendolo in ansia di parlare e concludere velocemente le sue frasi, prima che A. gliele finisse anticipandolo. Questa competizione produceva nell'atteggiamento di A. il sottolineare, ogni volta che G. parlava, meta-comunicati come “sei lento” o “ho capito cosa vuoi dire, andiamo oltre”; questi contenuti aggredivano, di un'aggressività poco tangibile ma molto potente. A. aveva infatti un atteggiamento e una meta-comunicazione competitiva e quindi, di fatto, fortemente negatoria contro G.. Spesso questo atteggiamento di forte competizione viene interpretato come proattivo e infatti assomiglia molto alla proattività, ma si discosta da questa, per il distinto e competitivo livello negatorio.

 

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