NON PSICOLOGICA
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La competitività
A differenza delle attività professionali, di mercato e sportive, la competitività nelle relazioni umane ha sempre uno scopo individuale. Spesso non ci si rende conto quando e quanto frequentemente essa si attiva. La competizione, che tutti ritengono un fattore positivo e di crescita, personale e/o collettiva, in realtà contiene delle forti deviazioni, che, nei rapporti umani, causano non poche problematiche. Iniziamo individuando che il concetto di “competizione” prevede un vincente e un perdente, e su questa piattaforma, andiamo a capire che l'esito di una relazione dove si sia installata una forma di competitività, nel tempo prelude sempre delle forti delusioni. Ogni persona, durante una competizione, sarà soddisfatta di sé solamente se vince, ma se perde lo sarà decisamente meno. Dobbiamo ricordare che non si riesce mai a sapere in anticipo chi vincerà. Nei rapporti interpersonali, si indica come competizione qualsiasi schema di comportamento o di comunicazione, che veda almeno due persone cercare di prevalere una sull'altra. Si attiva una competizione su pensieri, idee, visioni della realtà, sulla logica, sulle cose giuste o sbagliate della società, eccetera. Spesso le dinamiche competitive restano all'interno dei nostri pensieri ma non escono dalla nostra bocca. Le dinamiche competitive sono sempre inconsapevoli, ed è molto raro che un soggetto se ne possa rendere consapevole senza una speciale formazione. Ma cosa distingue la competizione dalla più semplice e saggia condivisione del pensiero? Il primo fattore di distinzione è il tipo di ascolto e interesse verso la comprensione delle idee altrui, tra persone non competitive, l'intento è di comprendersi reciprocamente ed espandere ciascuno il proprio punto di vista, spesso attraverso l'approfondimento, oppure attraverso un interessamento specifico proattivo. Chi compete, invece, usualmente non scolta molto l'opinione altrui, ha fretta di enunciare il proprio pensiero, e ricorre volentieri a frasi di negazione rivolte all'idea dell'avversario. Non ci sono tentativi di approfondimento e l'atteggiamento generale è quello di tentare di prevalere. Addirittura spesso, i competitori si sfidano nell'imporre all'altro di dimostrare quello che dice, quindi non siamo davanti a un atteggiamento di comprensione, ma di valutazione preventiva con l'intenzione di smontare l'avversario a prescindere dai contenuti. Le persone abituate alla competizione spesso iniziano le frasi con un “no...” oppure “no, ma...” talvolta anche con un “si, ma...” e altre simili forme automatiche, che lasciano intendere si da subito, che non sono d'accordo con noi. Altre tipologie di competizione riguardano gli automatismi di negazione nelle dinamiche di coppia, dove uno dei due, in modo del tutto casuale, da per scontato che la propria visione sia quella corretta e l'altro/a nemmeno viene consultata/o. Processi di negazione impliciti che si fondano sulla necessità di prevalere, a prescindere da quanto buona sia la sottostante giustificazione cognitiva o di pensiero. Per dirla in poche parole, siamo davanti ad un dinamismo competitivo quando non c'è “l'intenzione” di scambiare punti di vista. Questa cosa è facile da riscontrare, ad esempio, nei gruppi di ragazzi che scherzano, dove osserviamo generarsi di raffiche di battute, dove ogni partecipante ha la frenesia di dire la propria e mostrare quindi il proprio acume, superando quello degli altri. Queste sequenze del comportamento, come già scritto, sono del tutto inconsapevoli, si accendono in modo spontaneo e spesso nessuno si accorge di questa specifica dinamica.
Nei momenti in cui la relazione diviene competitiva, si attivano dinamiche di tipo negatorio. Due soggetti che interagiscono competitivamente, automaticamente cercano di sviluppare una posizione gerarchica, definendo chi sta sopra e chi sta sotto, chi vince e chi perde, chi ha ragione e chi ha torto. Questo dinamismo si rappresenta culturalmente come valido, e lo è, finché l'analisi si limita alle sole condizioni concettuali e intellettuali; ma la competizione assume significati assai diversi, nella relazionalità dell'attenzione (dinamiche dell'attenzione), del potere e dell'affettività. Una riflessione speciale andrebbe fatta a questo proposito su quale effetto produca la competizione sulla crescita dei bambini, ma vista l'ampiezza dei contenuti, rimando il tema ad un altra pagina specifica.
La competitività, quando resta idealmente solo sul piano cognitivo delle informazioni, potrebbe essere ritenuta (anzi è) un comportamento positivo, poiché si tenderà a far luce sulla verità dei contenuti cognitivi che si condividono. Diviene quindi oggettivo il valore positivo della competitività, se utilizzata per sfatare miti e individuare errori. Questa oggettivazione però decade nel momento in cui un individuo viene sottoposto a un dinamismo competitivo in una condizione impari. Questa disparità inconsapevole e/o ineluttabile, diviene un meccanismo umiliante per il soggetto che la subisce e scopre, suo malgrado, la propria inadeguatezza o inferiorità. Questo drammatico effetto, si lega al fatto che gli esseri umani compiono moltissime azioni (compresa la competizione) con lo scopo di sentirsi utili, accettati, approvati, stimati, vincenti, ecc... E' facile comprendere che se invece della modalità competitiva, si utilizzasse una modalità condivisoria, il problema non esisterebbe affatto. Vi sono molti modi di condividere informazioni o di comunicare e la competitività è un modo articolato complesso e specifico. I comportamenti competitivi si caratterizzano per avere specifiche finalità e specifiche intenzioni. L'individuo competitivo mira inconsapevolmente all'autoaffermazione, adottando le proprie performance di valore ed eccezionalità, per confermare e soddisfare questa necessità.
Dobbiamo anche considerare che “autoaffermazione” e “soddisfazione” sono schematismi che hanno un doppio livello di espressione. Nei rapporti umani, possiamo distinguere la comunicazione esplicita verbale e quella implicita non verbale; in questa duplice espressività si concretizza anche una duplice intenzionalità. Come è noto, nel flusso comunicativo possiamo individuare due posizioni che si alternano tra di loro, ossia il mittente e il ricevente. Questi due ruoli definiscono una grande quantità di comportamenti, che spaziano dai più “aggressivi” ai più “difensivi”. Ovviamente, durante un dialogo, la posizione che assume il mittente determina la posizione del destinatario, che, per forza di cose, risulta subordinata/condizionata. Per esempio, se il mittente accusa, il destinatario dovrà difendersi; oppure, se il mittente condivide un'informazione, il destinatario non può non riceverla (anche se la rifiutasse). Comprendiamo quindi che l'autoaffermazione/soddisfazione si possono produrre solamente se l'individuo che ha questa necessità vince sull'altro, e questo non può avvenire attraverso un reale ascolto e interessamento ai temi proposti dall'avversario (se proiettato come tale).
Tutte queste dinamiche, competitività, soddisfazione, performance, ecc... non hanno un'accezione positiva o negativa, ma tecnicamente funzionale alla riproduzione del proprio specifico “modello emotivo individuale” (detti anche schemi familiari), anche quando quest'ultimo è volto a produrre la sconferma di sé e la propria conseguente frustrazione, come per esempio vale per le persone con uno spiccato atteggiamento conflittuale (modello conflittuale), oppure chi vive in un continuo stato di vittima (modello vittimistico). Per fare un esempio, quasi sempre le persone iraconde, arrivano alla rabbia dopo essersi sottomesse, esprimono, quindi, uno schema che vede la accettazione, sopportazione di situazioni frustranti, che poi esplodono in una improvvisa ribellione rabbiosa (rabbia vittimistica).
Il comportamento competitivo origina nelle consuetudini familiari dalla profonda “paura” di non essere all'altezza e, su questa potente spinta, tenta di produrre qualcosa che compensi (contrasti) il presupposto di inadeguatezza. Il bambino cresce nell'idea di sé di dover sempre performare qualcosa per soddisfare le aspettative implicite e inconsapevoli dei genitori. In pratica è una continua attivazione primaria (arousal= attivazione delle emozioni primarie - Curiosità evolutiva/paura) che a livello di corteccia cerebrale si arricchisce (dopo essersi attivata) di strutture funzionali come gli stereotipi, la cultura, la morale assieme a complessi schemi comportamentali. Purtroppo però, come sappiamo, un individuo cresciuto in questo pessimo pregiudizio su di sé, per quanto divenga bravo, abile e speciale, non riuscirà a togliersi questa spinta interiore e il tarlo della inferiorità permarrà in ogni caso. L'individuo adulto, a differenza del suo periodo infantile, inverte le attivazioni emotive primarie, e ciò che da bambino si è sviluppato sulla spinta della paura, da adulto viene riprodotto sulla spinta conservatrice dell'attrazione, anche se quello che viene riprodotto è un sistema emotivamente doloroso.
Ecco che allora spesso la persona non riuscendo a trovare qualcosa che disseti definitivamente il bisogno di sentirsi appagato, impara e adotta dei meccanismi del comportamento accessori, come ad esempio la manipolazione vittimistica. Spesso, quest'ultima, la troviamo proprio nelle persone competitive, che a forza di usare questa modalità finiscono per farsi emarginare dalle persone da cui vorrebbero farsi apprezzare. Riassumendo, realizzano uno stato di emarginazione, prodotto proprio dalla competitività, che altro non è che il tentativo di farsi apprezzare e accettare; un paradosso. Questi comportamenti utilizzano contemporaneamente ogni strumento a disposizione per definire e detenere un potere di superiorità. Se questa pratica, però, fosse efficace nel dare soddisfazione e compensazione alla paura di inadeguatezza, l'individuo andrebbe facilmente a dismettere questi comportamenti; purtroppo questo non accade. In realtà, il fenomeno competitivo negli adulti, essendo mosso dall'arousal emozionale (=uno stato di allarme continuo), in questo stesso stato emotivo si sviluppa e consolida divenendo inamovibile o quasi. Come possiamo vedere anche in diversi altri comportamenti, le dinamiche che scaturiscono per compensare gli effetti dell'apprensione, producono situazioni e feedback che confermano, legittimano e consolidano lo stato emozionale di allarme come dominante e stabile.
Spesso si è attuato un equivoco culturale, per cui la competitività viene associata alla curiosità, alla voglia di sapere e approfondire: nel confronto continuo con gli altri viene presunto che si realizzi una crescita reciproca, in una moltitudine di stimoli volti a spronare le proprie abilità. Invece al contrario, la competitività è un dinamismo che, ponendo il confronto sulle misure del sapere/fare, viene attivata sulla base di una spinta profonda di ricerca del proprio valore, quindi col presupposto che non se ne abbia abbastanza; pertanto la presenza della competitività, sul piano culturale, non si potrebbe propriamente definire un meccanismo di benessere e positivo per la persona, ma un vincolo, come un cappio al collo che obbliga ad un grande dispendio di energia senza un ritorno stabile. Normalmente, un individuo con queste distorsioni delle dinamiche emotive, passa un intera vita a compensare e cercare di ridurre queste apprensioni, al punto che divengono automatismi rigidi, che la persona non riesce a svincolare ed abbandonare anche quando non servono più. Da adulti quindi, questi processi apprensivi della competitività e del suo corollario sono attivati dall'emozione primaria della curiosità, che cerca di mantenere uno status noto e in qualche modo rassicurante; anche se legato ad una forma di sofferenza (area di comfort). Un altra componente interessante è che le dinamiche relazionali competitive sono intrise di legittimazioni morali (ciò che è giusto e sbagliato ecc...) e proprio per questo tipo di assetto, che tende alla pre-valutazione, generando continui processi di inibizione, che tendono a non determinare una reale condizione di esperienze vissute che facciano evolvere la persona. Con la presenza di competitività e i correlati dinamismi dell'arousal che abbiamo letto sopra, l'individuo vive ed opera immerso nei pregiudizi, la consuetudine emotiva mantiene la sua efficacia nel dominare pensieri e comportamenti, i feedback vengono condizionati nel confermare inadeguatezza e l'individuo è costretto a implementare continuamente la propria spinta competitiva. Il loop del serpente che si mangia la coda.
Al suo opposto troviamo, il sapere/fare/condividere quando vengono agiti in seno a una autentica passione, guidata dall'altra emozione primaria, la curiosità evolutiva non attivata come apprensione, non essendo strutturati sulla sensazione di inadeguatezza, non sviluppano comportamenti di confronto, e spesso, le attività strutturate su tale base rimangono riservate, private, non utilizzate per ottenere feedback di accettazione/approvazione dall'entourage (generando un autentico sviluppo della personalità). L'individuo produce da sé le proprie conferme e soddisfazioni. Possiamo trovare questo sistema in moltissime attività che svolgiamo normalmente, dove pur essendo presente una interessante quantità di sapere, non viene prodotta la ricerca della gratificazione o della approvazione sociale. Lo sviluppo dei sistemi relazionali basati sulla competitività, invece, divengono un complesso di dinamiche seduttive, in quanto la persona, essendo guidata dal bisogno di compensare/riprodurre quella data “lacuna” di modello emozionale, identifica nel feedback che può ottenere dall'entourage, la misura della propria abilità – paradossalmente anche quando questo conferma la propria inadeguatezza. La pervasività dei dinamismi competitivi investe anche le relazioni quotidiane, quando si cerca di offrire i propri consigli o aiuti a qualcuno che sembra averne bisogno. Ma è sempre così? Ogni volta che aiutiamo una persona siamo competitivi o negatori?
La differenza tra una postura competitiva negatoria e un aiuto autentico, sta nel fatto che nel primo caso, il ricevente percepisce un'intenzione controversa e rappresentativa, ossia, contemporaneamente, la soluzione ai propri problemi (proposta), insieme alla dimostrazione della sua inadeguatezza e un atteggiamento di superiorità e di ostentazione del sapere (negazione). Nel secondo caso, il ricevente ha la percezione di avere ottenuto un aiuto senza soffrire dell'evidenziazione della propria incapacità/inferiorità. Un altro grande indicatore di competitività nel proporre aiuto a qualcuno, sta nel fatto che spesso l'aiuto non è richiesto.
Nell'ambito del nostro modello culturale ed educativo, dobbiamo focalizzare che l'acquisizione delle informazioni e delle abilità, ha come scopi: il produrre un'autosufficienza interpretativa della realtà e il generare un bagaglio esperienziale, come fondamenti della capacità di individuazione interiore della persona (sviluppo della identità). In pratica, la sua capacità di indipendenza nelle relazioni interpersonali, la sua capacità di ponderare e scegliere, la sua capacità di ascoltare e apprendere. L'indipendenza, a livello di identità rappresenta la reale alternativa al confronto competitivo, poiché solo la completezza delle esperienze genera l'identità psicologica dell'individuo; al contrario, un'identità psicologica scarsamente sostenuta da esperienze incomplete, infonde instabilità e bisogno di compensazioni di tutt'altra natura. Le esperienze astratte e indefinite non comportano assolutamente l'identificazione emotiva e psicologica della persona, che soffrirà di un forte bisogno di compensazione, che quindi utilizzerà preferenzialmente le dinamiche competitive come tentativo compensatorio.
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