NON PSICOLOGICA

 

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della mente umana

 

 

                               Il vittimismo moralista come strategia inconsapevole

 

Fino a questo punto abbiamo considerato i dinamismi morali e quelli vittimistici nell'intento di comprenderne la genesi e la funzionalità. Ma nella quotidianità, il vittimismo, per sua intrinseca natura, porta con sé molto moralismo. Ogni persona che in qualche maniera soffre, è indotta a riflettere sulla propria condizione e a cercare qualche sistema che ne lenisca il dolore. Il naturale risultato di questa riflessione è che la mente diviene più selettiva. La grande attenzione che scaturisce nella complessa attività di comprensione delle fonti del dolore interiore acuisce il senso di dover per forza selezionare le cose, gli eventi gli atteggiamenti in una cornice di giusto o sbagliato, di bene o male o di migliore e peggiore. Questa complessa attività cognitiva diviene tanto più forte e totalizzante quanto più forte e duraturo nel tempo è lo stato di sofferenza interiore. Questa meccanica ha lo scopo di risolvere la difficoltà e portare un beneficio o sollievo, tuttavia quando una persona attiva i vari sistemi di selezione e discernimento per stare meglio, inevitabilmente incorre in una moralizzazione della realtà intorno a sé, mettendo involontariamente in luce e soprattutto amplificando le contraddizioni delle cose della vita. Questa procedura, purtroppo porta la persona a drammatizzare quasi ogni cosa. Per esempio nei rapporti affettivi un individuo è spinto a non accettare il fatto di essere amato, ma a volerne anche le prove e con-prove, sul lavoro aumenta a dismisura il confronto e la competizione coi colleghi, in generale potremmo dire che aumenta un senso critico diffuso, che a poco a poco perde il focus di trovare qualche soluzione al proprio dolore. Non è raro vedere e conoscere persone emotivamente rigide, con paure e fobie particolari, persone che emanano di non stare bene con se s tesse. Senza giudicarle, possiamo capire che questo è l'effetto della moralizzazione di ogni cosa, del drammatizzare cose che andrebbero prese con un maggiore fatalismo e soprattutto ci mostrano che la persona ha perso di vista la propria soddisfazione di vivere. La moralizzazione e la drammatizzazione di un evento generano un solo stato interiore possibile, quello di vittima. Non vogliamo con questo definire che essere vittime sia sbagliato, in quanto capita di esserlo veramente, ma porre attenzione sulla mutazione interiore degli obiettivi, delle focalizzazioni di soddisfazione e sulle conseguenze del proprio comportamento.

 

Esempio: Paola scopre che il marito la tradisce. L'amante è molto più giovane. Paola è distrutta e non sa cosa fare. Si arrovella e si sente sola, abbandonata, umiliata e ha perso la fiducia in ogni cosa. Cosa succede? Prima di tutto dobbiamo osservare che la tendenza culturale offerta dalla comunità (la cultura) è che come persona sia vittima di un comportamento grave. Secondo fattore in gioco è che per gli stereotipi culturali la concorrente giovane donna viene posta come vincente. Terzo fattore stereotipo è che viene infranto il sogno della famigliola felice che invecchia in serenità. Molti altri stereotipi sono in  campo ma non li citerò perché non cambiano la comprensione del sistema. Anzitutto ricolleghiamo questi stereotipi alla realtà.

 

Per cominciare non è affatto raro osservare che le persone smettono di amarsi anche se fingono di stare bene assieme quando sono in pubblico o con gli amici, pertanto la condizione della fine di un amore è una realtà che la nostra mente rifiuta perché non aderisce agli stereotipi imposti dalla religione e dalla comunità. Una persona (specialmente una donna) è oggetto di molta pressione sociale che la spinge a conformarsi in un dato tipo di immagine, di donna, di famiglia, di successo, che diversamente, viene etichettata come persona sfortunata e poveretta (perdente). La moralizzazione culturale compie il suo infausto compito di snaturare il rapporto amoroso nel trasformarlo in una istituzione obbligatoria e coattivamente strutturata (col contratto matrimoniale). Questa mutazione di stato è alla base dei fallimenti matrimoniali. Ma andando oltre, è facile comprendere che portare un rapporto sentimentale gratificante, appagante su tutti i fronti a un contratto da cui non c'è scampo rispetto alle varianti della vita, alla lunga toglie qualsiasi motivazione, sentimento, poesia e voglia di impegnarsi. Il fatto che molte volte le persone riescano a trovare una propria motivazione ugualmente, non cambia il funzionamento di questo sistema. Siamo ben consapevoli del fatto che certe regole nascano per delle necessità sociali ben precise e la assunzione delle responsabilità sia un fattore in gioco che non va sottovalutato. In questo testo tuttavia stiamo trattando le reazioni mentali e quindi non si intende discutere di altre funzionalità di tipo sociale. Davanti ad un obbligo, la mente re-agisce e non importa quanto, perché la quantità di re-azione viene sviluppata proporzionalmente in base al peso dell'obbligo e al tempo di assoggettamento. Verrebbe da obiettare che non sempre ci si oppone alle regole, e in parte è vero, a condizione che siano regole che non entrano in conflitto con la sensazione di soddisfazione.

Ad esempio se una persona nasce nell'obbligo sociale di pagare luce acqua e gas, nella sua vita non avrà particolari reazioni, ma se invece un soggetto scopre l'amore, bello, vero appagante, coinvolgente e poi si viene obbligati ad amare in un solo certo modo, per contratto, beh, lascio a voi la comprensione delle conseguenze.

 

Torniamo a Paola che non si è accorta che nel tempo è cambiata la condizione dell'amore e per lei andava tutto bene (fingiamo che sia stato vero) e stava facendo la brava persona, che rispetta i patti sociali di fedeltà coniugale e ci si era adattata con relativa facilità. Peccato però che le sia sfuggito il graduale aumento della insoddisfazione del marito. Pian pianino si sono allontanati, hanno vissuto un affievolirsi del legame e un banalizzarsi del rapporto dove tutto era diventato scontato. Paola è diventata vittima di un imprevisto “previsto”. Si sa che i matrimoni hanno questi problemi ma lei sperava di non incontrarli. In qualche maniera la sua mente non ha voluto o potuto considerare che poteva succedere, e purtroppo stava succedendo. La collettività e la sua cultura l'hanno preparata  a sentirsi vittima dei problemi ma non le ha dato strumenti con cui affrontare l'ammosciamento del matrimonio, nessuno le ha spiegato cosa si ha da fare se il marito si allontana sentimentalmente, come si fa a far re-innamorare il proprio uomo. Le regole sociali ti dicono gli obblighi ma non le strategie per sopravvivere (eccetto il 'portare pazienza') e nemmeno le cognizioni con cui comprendere ciò che si sta modificando. Ogni persona quindi si trova prima o poi a fare i conti con i cambiamenti, intorno ai quali non è stato preparato per comprenderli ed affrontarli efficacemente. Quello di Paola è un senso di frustrazione multiplo, una delusione a molti livelli, dove non c'è riscatto. Lei è divenuta a tutti gli effetti una vittima senza possibilità di sentirsi viva in un qualche ruolo valorizzante.

 

A conferma di ciò, nella sua mente parte il confronto con la giovane rivale. Questo processo rappresenta la meccanica con la quale la mente della persona cerca all'esterno le fonti/ragioni della propria sofferenza (locus of control esterno).

 

Con l’espressione "locus of control", si intende letteramente "luogo attraverso cui si esercita il controllo”. In Psicologia si può definire come una disposizione mentale o un atteggiamento attraverso cui si possono influenzare le proprie azioni e i risultati che ne derivano. Nello specifico, il costrutto di Locus Of Control – LOC (Rotter, 1966) si riferisce alla valutazione soggettiva dei fattori cui si attribuisce la causa di eventi, fatti ed esiti. Le persone caratterizzate da locus of control interno considerano esiti ed eventi conseguenti alle proprie azioni, mentre gli individui con prevalenza di locus of control esterno ritengono che gli eventi, esiti e risultati siano principalmente influenzati da forze esterne, meno o per nulla controllabili. Secondo le teorie dell’apprendimento sociale (Bandura, 1977; Rotter, 1966), tali processi di appraisal non sono innati ma vengono appresi nella relazione con l’altro in specifici contesti. (Cit. https://www.stateofmind.it)

 

Paola non si accorge che confrontandosi con la giovane amante del marito genera una forte deformazione della realtà in quanto ci attribuisce tutte le doti che solo Paola proietta essere come suoi personali difetti, e solo quelli. Le attribuisce un bel corpo da giovane (perché lei decide che il proprio sia ormai da buttare) le attribuisce la vitalità (perché lei decide di non averne più), le attribuisce tutti quei parametri di comportamento spensierato, amabile, di felicità e molto altro, nella aperta convinzione che per lei siano totalmente inesistenti e oramai impossibili. Ma è così solo nella mente i Paola. Nella realtà invece, il corpo di Paola, per quanto non più giovane è un corpo che, se fosse ad esempio grassoccio, si può dimagrire, ritonificare e soprattutto a moltissimi uomini piacerà lo stesso! (tanti uomini diversi hanno gusti diversi). Paola definisce quindi inconsapevolmente tutti i parametri della propria proiezione univocamente come la dimostrazione del suo essere senza via di scampo, una fallita interiore. Oggi, dopo due secoli di studi e osservazioni sui comportamenti umani sappiamo ad esempio che una giovane donna che entra come amante in un rapporto matrimoniale ha tutt'altro che una vita sentimentale vivace ed appagante, perché si trova probabilmente a fare la crocerossina di un uomo con diverse difficoltà, una persona che ha da vivere una seconda vita piena di limitazioni (perché vive di nascosto), segreti e conflitti cui far fronte. Infatti, escludendo i primi tempi dove agli amanti sembra tutto meraviglioso e potente, la maggioranza dei rapporti tra amanti si rivela essere una grande problematica mentale per la giovane amante, che ne soffre per non essere mai la unica vera amata dal maschietto fedifrago e spende anni della sua vita ad elemosinare un amore che non si realizzerà (una buona lettura in proposito sarebbe “donne che amano troppo” di Robin Norwood). Paola non è consapevole del vero inferno della rivale, anzi ne proietta un film che mostra il massimo appagamento. Questo importante dinamismo è creato colpevolmente da una cultura ignorante ed obsoleta che ha dei valori totalmente negatori e punitivi verso l'amore e i suoi risvolti, lasciando le persone impreparate e ideologizzate.

 

Paola attribuisce alla giovane rivale una vitalità che lei non è più in grado di offrire, ma è vero? Ovviamente no, perché la vitalità che lei immagina, fa riferimento all'idealizzazione dei ricordi di propri momenti felici, dove Paola si è sentita così bella, importante e totalmente amata. Ma se andiamo a guardare veramente cosa è accaduto nella vita vera di Paola scopriremo facilmente che quel modo di sentirsi è stato un flash, brevi momenti o periodi che sicuramente sono importantissimi, ma rappresentano solamente un punto cui tendere per tutta la vita. Una meta da raggiungere, un luogo idealizzato che ci funge da riferimento o metro, con cui misurare il nostro valore. Se sono amata valgo, se non lo sono  ergo non valgo nulla. Questo assunto che Abraham Harold Maslow  ha collocato come uno dei bisogni della persona, rappresenta invece un carcere per la mente, che genera un potente assoggettamento a ideali assurdi che azzerano la individualità, la personalità e soprattutto l'idea di crescita interiore autonoma in esperienze di vita comprese come la propria specialità. Vedere se stessi in funzione di una risposta esterna è un martirio continuo. La nostra mente non è costruita per essere una bandiera al vento delle pressioni o opinioni altrui. Quando accade, la persona soffre indefinitamente e in continuazione di forti dinamiche della paura, pervasivi sensi di colpa, difficoltà di autodeterminazione di obiettivi e soprattutto di soddisfazioni. Dopo questa doverosa precisazione sul ruolo della cultura e del senso comune di normalità, andiamo a guardare come la mente di Paola ha trasformato involontariamente a sua volta, il rapporto amoroso in un inferno. Accade che nel tempo ciascuna persona, similmente alla lingua che parla, applica i propri specifici processi emozionali che diventano tradotti in comportamenti. Ne risulta che quindi Paola nei bei tempi in cui il rapporto era gratificante, esprimeva a suo modo e secondo i propri modelli familiari, l'amore per il suo uomo. Questo comportava ad esempio essere una brava donna di casa, avere un buon lavoro ed essere sempre presente per lui. Tutto filava liscio come l'olio. Poi arriva il primo figlio. Da brava madre inizia ad abnegarsi per lui. Il tempo passa e il marito si sente messo da parte e inizia ad esprimere lievi forme di gelosia. Nulla di palese, semplicemente lui soposta il suo sistema e focalizza la crescita della sua professione. Ottimo, diremmo, garantisce alla famiglia una maggiore serenità e benessere. Questo progetto approda ad una necessità di cambiare casa, visto che possono permetterselo, ma nessuno si accorge che questa esigenza non era realmente condivisa da lui, ma eminentemente da lei. Lui si coordina ed accetta di buon grado e la cosa va in porto. Mutuo e nuovi impegni divengono concreti e costanti. Ancora una volta nessuno dei due si accorge che lui non stava vivendo questo sviluppo allo stesso modo e nella stessa bellissima prospettiva. Ma lui non ha il coraggio di esplicitare, tanto meno a se stesso, di non essere allineato alla moglie. Accade semplicemente che tende a chiudersi in se stesso, un pochino solo. Quell'entusiasmo ostentato diviene un po più pesante e meno attraente. Accade che la madre di lui ormai anziana inizia ad avere forme di infermità nella autonomia del movimento, pur mantenendo una perfetta lucidità mentale. Paola, da brava moglie si prende fortemente cura della suocera, che invece al figlio (il marito di Paola) sembra non importare affatto. Che strano, al figlio non importa di sua madre. Questa assistenza all'anziana suocera si protrae per diversi anni e per tutto il tempo il marito di Paola sembra più infastidito che contento dalla proattività di Paola verso sua madre. Chissà... Paola, per contro, vede nel proprio impegno un dimostrazione d'amore e di accettazione incondizionata del suo amore e valore di madre , donna e moglie, secondo i migliori stereotipi della cultura tradizionale. Il marito, nulla, non se ne cura, anzi si chiude ancor più in se stesso e inizia a diventare lievemente aggressivo con battute, ironie e sarcasmi. Paola, si sente umiliata e svalorizzata dal suo atteggiamento e a sua volta entra in un assetto di confronto morale contro il marito. Lei pensa:” mi faccio in quattro nel lavoro, il figlio, tua madre e tu invece di confortarmi e sostenermi mi tratti male?” . Si, non accorgendosi che stava totalmente trascurando il marito, non accorgendosi che dava per scontato che il suo impegno fosse oggettivamente positivo e ineccepibile, stava negando anche se stessa e i propri bisogni di donna, per perseguire gli stereotipi sociali di una persona che nega se stessa per un bene superiore, il dovere. Senza dubbio tutto questo è complesso e non è facilmente risolvibile con moralismi in bianco-nero. Tuttavia è una certezza virtuale che se ciascuno nega i propri bisogni di legame affettivo e di sentirsi importante, gli effetti negativi non tarderanno a farsi notare. Paola seguendo gli stereotipi di essere socialmente una brava dona ha negato i propri bisogni, Il marito nel perseguire i propri stereotipi di essere un bravo marito paziente ha involontariamente creato il conflitto di cui poi diviene a sua volta vittima. Il tradimento è soltanto in questo caso l'atto di vendetta che un partner più vittima dell'altro agisce per ferire e colpire il proprio carnefice.

 

Nell'insieme dell'esempio di Paola, comprendiamo come i due coniugi si siano lentamente trasformati in vittime che producono e inducono l'altro a divenire carnefice. Una gara di vittimismo inconsapevole. Ogni soggetto si è sentito e visto come vittima dell'altro, in tempi diversi e con stereotipi diversi. Il marito, sentendosi tradito nel fatto di essere al centro delle attenzioni della moglie la focalizza come cattiva e colei che non capendo va punita, colpita. Lei che fa la brava donna si sente tradita perché invece di sentirsi riconosciuta dell'impegno profuso si trova ad essere attaccata e bersaglio del sarcasmo aggressivo del marito geloso. Sicuramente questo è solo un punto di vista ma rappresenta ciò che accade esattamente nel sistema delle dinamiche emozionali della nostra mente. Quando una persona si sente ferita entra in un particolare stato, e non importa affatto se razionalmente ci sia una buona ragione o meno che giustifichi il comportamento che ci ha ferito. Le catene dei comportamenti di reazione sono solo reazioni e vanno comprese come tali e non come sorgenti.

 

Quali sono le strategie di pensiero inconsapevoli agite nel contesto del rapporto tra Paola e il marito?

Anzitutto partiremo dal ricavare queste strategie dai comportamenti adottati in una analisi inversa.

 

Paola:

-l'impegno a sentirsi normale come le altre donne, presupposto quindi di dover dimostrare di esserlo.

-impegno massimo nell'impostare come prioritario il sacrificio, come metrica di valutazione del valore. In base a questo valore oggettivato si determina quante attenzioni si è legittimati a chiedere.

-aspettativa di quanto valore le dovrà essere riconosciuto dall'entourage e reazione se le attenzioni ricevute non coincidono con quelle aspettate.

-l'esterno non mi mostra gratitudine per il mio sacrificio quindi sono vittima di ingiustizia.

-sono legittimata all'indignazione perché mio marito non mi sostiene anzi mi attacca.

-quindi sono legittimata a vendicarmi, negandogli le attenzioni che mi chiede e punendolo per la sua distrazione nei miei confronti.

 

Marito:

-Cercherò di farti felice

-faccio ciò che ti rende felice (verso lei).

-mi sono impegnato per realizzare una famiglia felice (verso la famiglia).

-quello che faccio non è mai abbastanza.

-Sviluppo e potenzio il mio sistema di professione, così potremo essere più felici (più soldi e prestigio)

-Presupposto che la felicità dipenda dai beni e acquisti (casa, oggetti, scuola, prestigio)

-Nessuno mi è grato per l'impegno profuso.

-non mi consideri, conta solo quello che fai tu (gelosia)

-mi vendico perché mi hai umiliato non considerandomi.

-sarei più felice se avessi una ragazza giovane senza pensieri e impegni.

-mia moglie pensa solo alla famiglia e non a me.

-Vada in malora la famiglia, spacco tutto.

-idealizzo il tradimento come accettabile, così impara.

 

In questa sequenza possiamo definire e ricavare qualsiasi forma di giudizio di parte, sia dal punto di vista maschile che femminile, poiché ogni partner ha i propri sentimenti che rendono la propria visione di sé vittima al punto giusto. Dal punto di vista femminile non potremmo mai accusare Paola di essere una brava donna che si impegna, quindi socialmente parrebbe che sia la vera vittima. Tuttavia in questa analisi dimentichiamo che in definitiva ha involontariamente negato anche i propri bisogni di sentirsi amata, coltivando il rapporto senza darlo per scontato, senza accorgersi che non stava funzionando. Questo certo non è una colpa ma rappresenta la realtà, dove se non innaffi la pianta essa non ti darà i frutti che ti aspetti. Paola alla fine nega sé stessa a fronte di un dovere che ha acquisito e del quale nessuno le ha spiegato i risvolti meno banali. Nella sua buona fede non si è accorta che il suo comportamento negava involontariamente le necessità che il partner esprimeva e ha dato per scontato che tra le cose sacrificabili delle sue priorità c'era il marito, alla stessa stregua che lei stessa era sacrificabile. Per dirlo in una frase semplice, ha proiettato sul marito sé stessa.

Nel dinamismo di strategie del marito troviamo l'equivoco generato dalla stesa dinamica, dove esso si impegna e si sacrifica per fornire tutti i mezzi necessari alla famiglia, ma nel contempo avverte che quello che fa non genera alcun fenomeno di legame con la moglie, diventa solo un dovere perché lei lo vive e rappresenta come tale, cioè come lei stessa se lo rappresenta su di sé. Il maschio a differenza della femmina italiana, non avendo il focus superiore dei figli (per moltissime ragioni, prima su tutte il fatto che la maternità in Italia vede di fatto solo la madre protagonista della famiglia per anni) diviene l'escluso del nucleo familiare. Nella famiglia media il papà ha dei doveri, primo tra i quali soddisfare le esigenze della maternità. Non tutti i maschi sono cresciuti con l'effettivo valore e priorità di questo ruolo superiore, e specialmente dove magari i maschietti vengono un po viziati dalla mamma, essi divengono labili all'impegno e propensi a prezzare ogni loro prestazione. In altre parole, se un bambino maschio viene cresciuto con una corrispondenza tra prestazioni e premio in attenzioni dalla mamma, quando da adulto formerà una propria famiglia, mal tollererà di dare delle prestazioni senza ottenerne una specifica retribuzione in attenzioni dalla moglie. Questo aspetto che chiameremo addestramento dinamico delle attenzioni familiari,  definisce il grado di capacità di sacrificio e di impegno incondizionato. Ovviamente non si può capire in anticipo quale grado di capacità in questo senso avrà il tuo partner. Sono 'investimenti al buio', che oggi in realtà saremo anche in grado di comprendere, ma non è diffuso il know-how, alle  donne non viene insegnato come si fa. E' palese che l'atto formale di rottura lo fa il marito, ma anche qui possiamo facilmente capire che è un autogol, un fallimento nella sua ricerca di soddisfazioni, un aver speso 25 anni in un rapporto fallito. Per contro per una parte della collettività (quella arrabbiata con le donne) lo stereotipo del maschio che esprime la propria virilità scopando arbitrariamente con sfregio per la donna, viene posto come vincente e appagante. Anche qui vediamo come gli stereotipi culturali sono sbagliati e colpevoli di favorire una grande quantità di equivoci e meccanismi del dolore senza fornire una reale strumentalità positiva. Ciò che possiamo comprendere è che un uomo dopo un quarto di secolo con una famiglia e un importante vissuto familiare, per quanto possa per un breve periodo sentirsi giovane, non potrà sostenere a lungo una facciata da playboy, perché di fatto non lo è e non lo è mai stato. Infatti l'uomo che a sua volta cade nelle trappole di una cultura pervasa da stereotipi sbagliati, soffre in egual quantità anche se in modo diverso della ex moglie. La mente cognitiva darà spiegazioni diverse, ragioni oggettive diverse, le persone dell'entourage potranno dire quel che si vuole a discolpa di qualcuno e colpevolizzando l'altro, ma resta il fatto che il dolore di un fallimento personale di questo tipo non glielo toglie nessuno, specialmente quando la frattura è arricchita da anni di rancore e conflitti.

 

Che cosa succede in un soggetto che ha una marcata caratteristica vittimistica moralista?  Per cominciare un soggetto moralista rispetto a chi non lo è, tenderà ad essere propenso a valutare e giudicare il comportamento altrui con maggiore intensità. Come abbiamo visto nel capitolo sulla morale, essa si presta moltissimo alla personalizzazione e fornisce al vittimista moralista i presupposti strategicamente perfetti per esprimere proattivamente il proprio stato di vittima e ottenere quindi la conferma delle proprie proiezioni. Questo tipo di persona, vive in un perenne stato di allarme che risulta essere in un buon equilibrio tra le emozionalità primarie, pertanto apparentemente risulta una persona relativamente stabile, proattiva ed esprime un certo benessere. Lo stato di allarme si evidenzia immediatamente qual ora la situazione sfugga al suo controllo, nel qual caso emerge la scarsa elasticità dei suoi flussi emotivi. Il comportamento si altera rapidamente ed emerge subito la struttura moralizzante, con la quale esercita una significativa pressione sulle persone del contesto. Come tutti i vittimisti, utilizza questo strumento per controllare e manipolare gli altri ma lo fa con una significativa assertività che spesso raggiunge l'aggressività più esplicita arrabbiandosi repentinamente.

 

Esempio reale:

 

Antonio, 59 anni artigiano. Nella sua piccola realtà lavorano 19 dipendenti. Negli stereotipi è il tipico personaggio caciarone estroverso degli anni '80-'90. Quando parla con le persone di argomenti che teme sta testa bassa, le guada raramente in viso e i suoi argomenti sono espressi in vari tipi di cose di cui lamentarsi. E' un uomo chiacchierone, un po' ridondante, che può spaziare dalla politica alla tecnologia, dotato di un buon bagaglio argomentale. Nelle condizioni dove egli proietta una difficoltà o un problema, adotta frequentemente una sequenza di comportamenti piuttosto chiara. Dapprima cerca di iniziare lui la conversazione, spostando fin da subito l'argomentazione su qualcosa che lo opprime, tipo i costi di produzione o il tempo impiegato dai dipendenti per fare una certa lavorazione. Questa fase iniziale è caratterizzata da un atteggiamento da vittima rassegnata, che nel sotto-testo sta ad indicare che probabilmente non ce la farà e che il futuro è incerto. In poche parole si de-potenzia. Questa prima parte di atteggiamento diviene tanto più lunga quanto più spinoso per lui è il tema da trattare. Ridondante e prevedibile, non si accorge che usa sempre gli stessi argomenti da anni e le persone intorno a lui lo compatiscono, ma egli non vede. Quando il suo interlocutore finalmente, cogliendo uno spiraglio della ridondanza logorroica di Antonio inizia ad esporre la questione da trattare, egli si innervosisce istantaneamente e aumenta drasticamente il volume della voce interrompendo l'interlocutore, parlandogli sopra e aumentando il livello della lamentela, che stavolta devia sulla mancanza di tempo, mancanza di soldi oppure devia la conversazione su temi drastici del fatto che è oberato di impegni e non riesce ad occuparsi di tutto. Dopo pochi secondi di questo stato, estrae una sigaretta e una volta accesa riattacca la lamentela concitata. Dopo pochissimo tempo abbandona la conversazione e se ne va sbuffando fumo a testa bassa camminando deciso e arrabbiato. L'interlocutore viene abbandonato li dov'era, senza replica. Questa descrizione è riassuntiva, e nella realtà contiene qualche variabile in più in quanto piccole parti di questo copione possono variare a seconda dell'interesse di Antonio verso l'interlocutore. Quello che posso affermare è che questo giochetto comportamentale viene applicato almeno due o tre volte al giorno per governare le cose a modo suo: o fai come vuole lui o si incavola. I suoi dipendenti lo evitano il più possibile e non vi dico nemmeno quanti conflitti senza soluzione sono regnati in quella azienda.  Questa sequenza descrive perfettamente che la persona ha imparato, nel tempo, che entrare in un certo stato d'animo funziona ed ottiene ciò che vuole. Fa leva sul senso di colpa che le persone attivano davanti alla rabbia di un soggetto che esprime drammaticamente di essere vittima e di abbaiare il proprio stato ad alta voce. Gli argomenti trattati in queste sfuriate vertono sistematicamente intorno a questioni del tipo: “ho venti famiglie coi mutui da pagare a cui devo garantire lo stipendio” oppure: “Cosa devo fare? Non si guadagna, si perde sempre denaro, non so se l'anno prossimo saremo ancora in pista!” oppure ancora: ”Ti pare giusto che io devo affrontare queste cose mentre gli altri stanno li, non si preoccupano e ridono? “ . Cose di questo tenore, danno l'accento ad uno stato di moralità nella quale lui è il supremo portatore e sacrificante, contro un mondo di cattivi che lo fanno soffrire. Credetemi che a sentirsi dire cose del genere da una persona arrabbiata ad alta voce, zittisce chiunque, anche se tutti sanno che non c'è nulla di vero. Siamo davanti ad una complessa strategia inconsapevole, egli non si accorge di farlo, la sua mente proietta veramente di essere vittima di tutti gli eventi che mentalmente partorisce, ma che nella realtà non esistono, arriva ad inventare le storie più incredibili. Lo stato di vittima viene oggettivato dagli argomenti fortemente moralizzanti, espressi con la rabbia dell'impotenza.

 

Racconterò ora di un'interessante situazione verificatasi al primo incontro con due coniugi: lei, di circa cinquant'anni, soffriva di depressione e lui non sapeva che cosa fare essendo scontenti del trattamento farmacologico. Durante il colloquio, nei primi minuti di dialogo, il marito mi ha spiegato le difficoltà di sua moglie; fino a quel momento io non avevo proferito parola e, appena il marito ha quasi esaurito gli argomenti, la moglie ha iniziato in maniera aggressiva, a voce alta e provocatoria a spiegarmi che è molto difficile convivere con l'essere stata abbandonata dal proprio padre ed essere stata vittima di attenzioni sessuali parentelari (abusi lievi). Conclude infine che per lei l'unica via di uscita era il suicidio ed era la seconda volta che lo tentava. Io ho ascoltato attentamente e ho colto in questo guizzo di animosità vari contenuti di tipo comunicativo. Mi sono chiesto: perché la donna in un contesto non di confidenza è diventata aggressiva nell'esprimere questo tipo di dolore? Dopo che il marito aveva espresso tutta la pietà per le difficoltà che lei viveva e lo scoramento per la complessità delle scelte da fare, ella ha adottato una richiesta perentoria di attenzione, dove l'aggressività esprime il senso di colpa di questa modalità. Nella logica elementare diretta sarebbe coerente che, se io sono vittima, non ho bisogno di essere aggressivo nell'esprimerlo davanti a uno sconosciuto; anzi, vorrei farmi comprendere e compatire per la mia sfortuna. L'aggressione verbale si motivava con il senso di colpa conseguente dall'uso che lei stava facendo della sua storia, esternava il conflitto tra la sua storia e come la stava usando; ella la usava in maniera di condizionare le reazioni di chi aveva davanti, realizzando un uso funzionale e manipolatorio. Questo determina l'insorgere automatico del senso di colpa nella persona che agisce questa modalità, perché sa, in cuor suo, di essere manipolatoria e di volere la comprensione a tutti i costi. Questo tipo di uso dei propri drammi fa nascere un dilemma morale e il relativo senso di colpa. Ho considerato probabile, e infatti poi si è verificata la mia intuizione, che buona parte di questa rappresentazione potesse essere falsa, solo strumentale, finalizzata in realtà a tenere attraverso la rappresentazione della sofferenza, tutta la sua famiglia in pugno. I suoi tentativi di suicidio fanno parte di questo meccanismo. La donna, che per varie condizioni ha vissuto sempre nella condizione di vittima, sta raggiungendo la fine del proprio processo evolutivo, ma essendo passati gli anni ed essendo questa svolta troppo in ritardo, ella si trova in grave difficoltà. La soluzione più fattibile (non la più comoda) sta nel reiterare questo stesso modello, che naturalmente ella sente ormai molto meno che in passato e che deve quindi enfatizzare e drammatizzare in comportamenti sempre più forti.

 

                                               Il moralismo come strategia proattiva

 

Alcune persone non ricorrono al vittimismo proattivo come nel caso di Antonio, ma strutturano una complessa abilità di moralizzare ogni sfumatura della conversazione. Il loro vittimismo esce dalla rappresentazione di sé come vittime, ma tiene gli argomenti in una pseudo oggettivazione che attraverso il continuo confronto tra diverse situazioni  ridefinisce a piacimento i risvolti morali.

 

Luigi, 48 anni dipendente statale. Parlare con questa persona è a volte divertente, a volte un incubo. Quando si inizia una conversazione si passa rapidamente dal parlare del tempo a complesse situazioni di lavoro, di cui però fornisce solamente le informazioni e la narrazione secondo i suoi obiettivi. Ti racconta dei un episodio che ha trovato ingiusto e ti chiede se per te è normale che tizio faccia così. Quando tu rispondi secondo il contenuto che ti ha fornito, egli aggiunge un paragone con una situazione che blandamente è simile, ma ha un contesto completamente diverso. Tu resti disorientato, perché i due racconti non hanno molto in comune e in quel momento si sviluppa la parte interessante. Se lo segui e gli dai ragione, lo vedi quasi deluso, si rassegna che ha avuto ragione e la conversazione va alla deriva senza interesse. Se invece fai notare qualsiasi cosa di differenza tra il primo racconto e il secondo paragone egli rilancia con domande di tipo accusatorio come ad esempio: “Vuoi dirmi che per te è giusta quella cosa li?” oppure: ”Ma ti sembra normale che io faccia come ha detto sto tizio?”  e la parte interessante è che queste interrogazioni sono in netta contraddizione coi contenuti della storia iniziale. Se tu dai segnali ed opinioni diverse dalle sue, inizia a teorizzare idee strampalate secondo le quali questo è giusto mentre quello che dici tu è sbagliato, e così via in un atteggiamento sempre più polemico, fino a quando esausto tu cerchi di chiudere la conversazione e ti sottrai alla discussione. Quando chiudi il discorso, per lui non è successo nulla, non si è nemmeno accorto di quali toni accusatori ha adottato. Tutto normale e pacifico.

 

Lo stato di vittima si realizza in questo caso in maniera implicita, solo attraverso il paragone e una specie di logica, attraverso la quale realizzare il filo conduttore dei contenuti. L'incoerenza di questi fattori, però, è la vera struttura portante della strategia, attraverso la quale Luigi entra in contraddittorio verso l'interlocutore. Egli rimane spiazzato dai salti logici (che in realtà non lo sono) perché incoerenti.

 

Chi si trova in questa situazione viene stimolato su due fronti: quello competitivo nel tentare di dare una logica oggettiva ai contenuti, quello personale in quanto ha la sensazione di non capire cosa si sta dicendo.  Il risultato è che nell'interlocutore nasce una forte spinta nel cercare di stare al passo con il discorso e via via che invece non ci riesce, nasce in certa misura una frustrazione. La frustrazione fa sentire il soggetto vittima di uno strano atteggiamento di Luigi e la tensione aumenta. In questo divenire l'interlocutore si trova a cadere in una forte stimolazione della quale  non ha il controllo. Il malcapitato (che di solito si ritira dalla discussione quasi subito) se continua a partecipare a questo gioco, viene risucchiato nella competizione e si innervosisce, venendo quindi manipolato e condotto ad essere un carnefice cattivo che si arrabbia, che esprime idee non giuste e oggettivamente condannabili. In questo dinamismo gioca un ruolo importante la competizione cognitiva nella quale l'interlocutore e Luigi devono prevalere per uscirne. Il moralismo di luigi esprimendo continuamente valutazioni sul pensiero dell'interlocutore genera i processi continui di negazione dell'avversario generando la struttura portante del meccanismo vittimista.

 

 

 

 

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