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L'amore: emozione o sentimento?
Cosa intendiamo per stereotipo
La parola stereotipo significa: (cit. secondo Treccani) opinione precostituita su persone o gruppi, che prescinde dalla valutazione del singolo caso ed è frutto di un antecedente processo d’ipergeneralizzazione e ipersemplificazione, ovvero risultato di una falsa operazione deduttiva. Questo termine fu usato per la prima volta con questa accezione dal giornalista O. Lippman. La maggior parte delle definizioni di stereotipo sottolineano gli aspetti di ipersemplificazione e impermeabilità all’esperienza. Se valutati secondo i canoni della logica gli stereotipi si presentano, dunque, come strumenti di pensiero ‘pseudo-logici’. La cosiddetta erroneità o falsità degli stereotipi è stata analizzata sia con riferimento al processo che porta alla loro formazione (errori formali), sia con riferimento al loro contenuto (errori di fatto o osservazioni non conformi al vero). Quando si parla di stereotipi in genere si fa riferimento agli stereotipi sociali, ossia a credenze condivise da più persone (mentre gli stereotipi personali rappresentano le opinioni di un singolo individuo). Gli stereotipi sociali o di gruppo sono stati definiti operativamente nei termini della proporzione di membri di un gruppo che sono d’accordo nell’attribuzione di ‘etichette’ ai membri di un altro gruppo (eterostereotipo) o ai membri del proprio gruppo (autostereotipo). È dalla dinamica dei rapporti interpersonali che emerge più chiaramente la funzionalità degli stereotipi: risparmio di energia psichica, funzione d’integrazione dell’individuo nel gruppo, funzione ego-difensiva. Gli stereotipi alla fine sono quella parte espressiva, comunicativa, di rappresentazione mentale e di comportamento, che metaforicamente sono come le parole della lingua parlata, con i relativi significati molteplici e ambigui. L'amore come stereotipo
L'amore materno
Parlando del nucleo familiare, questa interazione critica, determina che la figlia/madre, nel gestire i propri figli, verrà continuamente valutata e quindi condizionata (positivamente o negativamente) dall'interazione e interferenza prodotta dalla propria famiglia. Spesso, a questa condizione già gravosa, si somma l'interferenza dei suoceri, che avendo anch'essi un valore genitoriale, esercitano la loro specifica interazione critica. Nella realtà del quotidiano la relazionalità tra figlia/madre e il proprio figlio è dominata da un continuo e inconsapevole stato di giudizio esercitato dalla compagine dei genitori, espresso nella miriade di precetti e valori apparentemente positivi, a cui la figlia/madre ha da soddisfare e sottostare. La futura madre si trova quindi sotto una spinta notevole di aspettative da garantire, che producono una notevole gamma di influenze sulla percezione di sé. Per effetto di questo condizionamento negativo la figlia/madre deve continuamente dare performance di “ottimi” comportamenti, che garantiscano, non solo la felicità e la salute del figlio secondo canoni fortemente stereotipati, ma e soprattutto le aspettative (e le relative pressioni) esercitate dai propri genitori. La figlia/madre quindi, agisce spinta dal proprio interesse verso il bene per i propri figli ma condizionata oltremodo dalla allarme/paura di ricevere critiche e di sbagliare, da parte del gruppo di genitori.
Molte persone che vivono queste condizioni, siano essi genitori o figli/genitori, non si accorgono nemmeno che la loro interazione abbia questo tipo di tratti, col peso che qui abbiamo evidenziato. Come mai si tende a non percepire questa complessità? Si possono dare varie risposte. La prima e più diretta è che nel sistema familiare le consuetudini governano e regolano i rapporti in maniera fluida, pertanto senza particolari sofferenze, fino ad arrivare a un punto critico, dove repentinamente tutto diviene 'faticoso/problematico'. Le persone ritengono le loro consuetudini "normali" e quindi tutto funziona senza particolari intoppi. I figli sono, e soprattutto, si vedono subordinati ai genitori e questo viene vissuto come rassicurante e corretto. Solo saltuariamente avviene che ci sia la percezione di qualche conflittualità, ma non viene particolarmente razionalizzata o drammatizzata e la si elabora con la pazienza (auto-negazione). Una seconda risposta è che l'esercizio della criticità nella famiglia occidentale è così diffuso che in qualche modo le persone ne sono assuefatte. La presenza di molti fattori che mettono in discussione in modo sistematico le proprie abilità, come persone e come genitori, vengono vissute addirittura come un fatto talvolta positivo/rassicurante (perché è giusto migliorare), mutando in accettabili, comportamenti che se compresi direttamente per il loro vero significato innescherebbero dei conflitti drammatici. Una terza risposta è che, come in ogni contrapposizione, spesso la disparità di potere rende i conflitti impraticabili. Pertanto spesso i figli accettano supinamente anche pesanti atteggiamenti di sconferma, proprio per la difficoltà di combatterli o difendersene. Ci sono altre risposte interessanti che non andremo in questo testo ad approfondire.
Su cosa si basa la credibilità e l'influenza nei rapporti familiari nel contesto dell'amore materno? La capacità di amare si viene a definire e costruire a seconda della percezione di sé come persona. Maggiori difficoltà interiori vive la madre, maggiori difficoltà avrà ad esprimere anche il proprio affetto, protezione, accoglienza verso i figli (vedi: Ed Tronick – La regolazione emotiva).
La complessa rete di valutazioni che vengono espresse implicitamente nei comportamenti (comunicazione non verbale) viene a oggettivarsi attraverso quella rappresentazione/ostentazione che conosciamo come competenza con cui la persona esprime il proprio sapere, in modo di far capire/prevalere all'altra il proprio valore. Questa viene considerata reale e attendibile sulla base di arbitrarie assunzioni scientifiche o pseudoscientifiche, spesso sostanziate da presunte proprie esperienze e con il presupposto di un bene oggettivo. Interessante osservare che qual ora la figlia non stia ai precetti suggeriti, partano ineluttabili frequenti, allusive , non verbali , colpevolizzazioni. Assai spesso, si vede anche che la figlia attiva dei profondi sensi di colpa anticipando qualsiasi atteggiamento parentelare, sostanziando e mostrando direttamente a quali pressioni è stata addestrata. Non intendo con questo definire come sempre sbagliate queste competenze (non è l'obiettivo di questo paragrafo), ma evidenziare come nella realtà, gli argomenti, gli scopi e le competenze siano le parti strumentali con cui vengono esercitate pressioni tra le persone. Forme di potere esercitato.
Infatti, è facile osservare che questi comportamenti contengono una dinamica fortemente competitiva e, di conseguenza, tende frequentemente ad evidenziare la fallacità dei figli. La figlia/madre si sente sotto una continua pressione giudicante e naturalmente mette in dubbio la propria capacità di interagire (abbassa la propria autostima), perché l'oggettivazione dell'esperienza e le pressioni della propria madre risultano troppo pesanti (anche se nel complesso inconsapevoli) e consolidate per essere contrastate difendendosene. Non è raro assistere che sia l'intero entourage familiare ad agire schemi competitivi critici.
Ne consegue che, quando i livelli di queste attivazioni di pressioni intra-familiari raggiungono livelli che mettono in difficoltà la figlia/madre, essa è implicitamente e automaticamente portata a reprimere qualsiasi forma di dissenso e/o individualizzazione diretta di sé, come donna autonoma. A ogni tentativo in questa direzione corrisponde un aumento delle tensioni intra-familiari e della colpevolizzazione come figlia che non accetta l'interazione esperta della mamma e quindi, il rinnovo della pressione esercitata dall'entourage. Nella nostra cultura latina, non è prevista l'autonomia. Soprattutto, le spinte di auto-affermazione inoculate in ciascuno, non permettono di attendere e ripettare i tempi altrui, non rendono accettabile dare un aiuto quando viene chiesto, ma impongono una certa 'invasività', espressa nei continui tentativi di interferenza che anticipa ogni situazione con forti competizioni sugli argomenti.
Senza addentrarci ulteriormente in questa interessante dinamica, torniamo a comprendere come, nel contesto di mamme, questo influisca sulla concezione ed espressione dell'amore materno. Nella relazione con il bambino, la figlia/madre, quali condizioni agisce nell'esprimere il proprio amore?
Anzitutto abbiamo da focalizzare che in questo contesto di approfondimenti, non importa la forma e la dolcezza della espressività materna, ma il suo grado di apprensione (arousal), specialmente quella inconsapevole. Questa apprensione, se frequente, è esattamente quella che il bambino registra nel proprio sistema limbico e consoliderà nel tempo come parte del proprio Modello Emozionale. In altre parole, le coccole espresse in uno stato emotivo rilassato, trasmetteranno al bimbo condizioni di reattività rilassate, le coccole espresse in presenza di significativa apprensione (per quanto positiva) trasmetteranno al bambino un complesso segnale di allarme associato ad un comportamento intimo di affetto producendo una reattività apprensiva. Questo schema, che finora abbiamo osservato nel contesto figlia/madre in relazione alla propria madre, va collocato nella prospettiva nella quale la figlia/madre ha assorbito e registrato le apprensioni della propria madre, ergo ne riproduce esattamente gli stessi schemi emotivi primari (che però non saranno uguali nella forma visibile). Questi stessi schemi sono stati a sua volta assorbiti-registrati da bambina dalla madre stessa, in un circolo che si protrae da generazioni.
Perché ci interessa comprendere il sistema di trasmissione degli schemi emotivi primari tra genitori e figli? Perché le ripercussioni sia a livello culturale e ancor più a livello delle dinamiche del comportamento sono veramente moltissime. Per cominciare abbiamo da comprendere che nel momento in cui un familiare esprime un dato schema di apprensione il nucleo dei familiari vi si adatterà, in vari modi, plasmando l'approccio 'culturale' che si genera nel processo di adattamento. In altre parole i parenti imparano ad accettare nel tempo questo aspetto del comportamento. Nel caso invece nel quale non lo accettino, attuando comportamenti critici o di isolamento, nel caso in cui lo tollerino, attuando una remissiva sopportazione. In ogni caso la parte cognitiva dei pensieri e delle riflessioni che i parenti attuano intorno a quel comportamento, costruisce un atteggiamento culturalmente condiviso tra i familiari che diviene nel tempo un aspetto accettato della normale consuetudine. Nasce una micro cultura nucleare, con la funzione di mediare le complesse catene di reazione emotiva espresse dai familiari e la capacità di condizionare le dinamiche di ogni singolo modello emotivo e i relativi comportamenti. In questo modo spesso, in un nucleo familiare si vengono a legittimare anche comportamenti parecchio aberranti. Si sente spesso la rassegnazione nella frase: 'Eh, si! ...è fatto/a così, è il suo carattere'. Potremmo definire questa condizione "l'addestramento familiare ad accettare passivamente la sofferenza emozionale". Questo meccanismo della accettazione passiva dei comportamenti apprensivi/distorti/ aberrati, diviene la prassi che genera di un particolare quadro emotivo e al contempo culturale, che colloca come 'normale' l'accettazione supina e rassegnata delle cose che non ci piacciono e il consolidarsi come immutabili delle anomalie caratteriali.
La cultura specifica che si genera nel nucleo familiare intorno al carattere dei componenti pone come piattaforma di base l'accettazione, che di per sé potrebbe sembrare anche un aspetto positivo e pacifico (il cosiddetto quieto vivere) ma che invece contiene il presupposto di una accettazione del dolore che fa sentire contestualmente vittime i familiari stessi. Questo meccanismo si può riassumere nella frase consueta:"porta pazienza", che viene sistematicamente usata per indurre una persona ad accettare una ingiustizia o un dolore. E' facile notare che quando un nucleo familiare contiene importanti alterazioni dei comportamenti e delle apprensioni, l'atteggiamento rassegnato di accettazione diviene un imperativo ancora più forte. L'abitudine alla 'pazienza' si traduce in una sistemica negazione del proprio punto di vista e dei propri bisogni di benessere e sentirsi accettati. Naturalmente quando una persona vede negati i propri bisogni in nome di un presunto e/o imposto 'quieto vivere', avverte un senso di oppressione ed entra in uno stato di vittima. Se questo stato di vittima viene espresso normalmente, diviene un assetto vittimistico assunto come postura e certezza, sostanziata proprio dal riproporsi di quelle sofferenze a cui si è moralmente obbligati a sottostare. Assai spesso nella famiglia italiana i bambini sono accuditi principalmente dalle madri e dalle nonne, ed ogni soggetto della famiglia ha vissuto in questo clima particolare, ne risulta che l'assetto di sopportazione e vittimistico sia il più condiviso in tutta l'italianità. Concludendo, possiamo comprendere che in questa riflessione non abbiamo definito negativamente l'amore materno nel suo complesso, ma solamente fatto luce su una specifica dinamica che raramente la persona riconosce e ancor meno può individuare, perché nascosta in bella vista dalla cosiddetta 'normalità'. Sicuramente non è facile cogliere queste sfumature, ma spendervi una riflessione può rappresentare un importante presa di coscienza.
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