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L'abnegazione
Ragionando sui meccanismi della negazione, si apre il panorama a una più sofisticata condizione, dove, nell'interazione tra le persone, si struttura una postura nella quale la negazione morale di sé, assume, oltre a un indiretto esercizio del potere, anche un valore morale superiore: l'abnegazione. Questo fenomeno si esprime come sacrificio, nel quale un individuo persegue più scopi: il riscatto, l'acquisizione della fiducia, la fede, la dimostrazione e la redenzione. Similmente all'auto-colpevolizzazione, l'abnegazione è un atteggiamento che viene usato nello stesso modo a fini manipolatori più o meno diretti. La differenza più evidente rispetto all'auto-colpevolizzazione sta nella perpetrazione nel tempo di un atteggiamento più appariscente e continuativo nei comportamenti, non focalizzandosi in una relazione diretta tra due persone o situazionale. Troviamo frequentemente l'uso del potere morale dell'abnegazione in strutture religiose e filosofiche, dove essa diviene atto dimostrativo rappresentativo dell'universalità e della supremazia di una scelta. L'abnegazione, come esercizio del potere anche sul soggetto stesso che la attua, diventa una dimostrazione di forza e capacità, che prova l'efficacia positiva e morale del pensiero rispetto a una normalità giudicata moralmente e da superare. L'abnegazione esercita indirettamente il potere di essere un forte controllo su di sé e, di conseguenza, assume il supremo valore di modello morale-sociale. Questa elevata collocazione di valore oggettivo diviene un atto direttamente negatorio rispetto a chi non sposa quella scelta, attuando attraverso questa rappresentazione una discriminazione implicita e profonda, ma, soprattutto, inattaccabile e soggiogante.
Sacrificio e abnegazione
Dopo quanto esposto nel paragrafo sopra, sommato a quanto possiamo osservare dai molti indicatori della cultura italiana (di cui seguirà una specifica analisi), risulta comprensibile come i concetti di sacrificio e abnegazione trovino una forte presa nella famiglia, divenendo spesso pratiche inconsapevoli e consolidate. Basta avere un marito irascibile, oppure una moglie fragile e nervosa o anche un figlio/a irritabile, per far si che questi due assetti distorti divengano la quotidianità del comportamento adottato tra i familiari. Faccio notare che la scelta della tolleranza, per quanto denoti bontà d'animo, non rappresenta in alcun modo una forma di aiuto, anzi, una forma di comportamento che quasi sempre finisce con esprimere sopportazione e isolamento verso il soggetto che necessita di aiuto. Il poveretto che soffre queste instabilità emotive (nervosismi, rabbia, ecc.), verrà quindi anche isolato e colpevolizzato, ciò accade pur non essendo una specifica e consapevole intenzione dei familiari. Socialmente però, la buona condizione del sacrificio e della abnegazione viene posta dalla collettività come un esempio di comportamento virtuoso, amplificando il senso di vittima dei familiari perché viene legittimato da stereotipi errati e di pessima qualità. Come avete letto ho messo sullo stesso piano del sacrificio anche l'abnegazione, perché? Di per sé, l'abnegazione si intende come una negazione di sé associata ad alti valori morali, come nel caso di un lavoratore indefesso che opera per sfamare i propri figli (alto ideale), oppure l'eroe che sacrifica la propria vita per la libertà di altri (alto ideale), e così via. Ma nel contesto della micro cultura familiare, il bene familiare diviene un alto ideale a cui normalmente non si pensa, ma cui si ricorre quando si è in una profonda crisi e si vorrebbe sciogliere il legame familiare. La persona che arriva al capolinea della propria condizione proiettiva di oppressione, ha un percorso segnato: o se ne va oppure resta e se ne fa una ragione sacrificandosi. Quando non troviamo più una buona ragione relazionale verso i familiari, allora si ricorre all'alto ideale di sacrificarsi per i figli o per la famiglia. Non trovo nulla di particolarmente negativo, se non il fatto di essere davanti al massimo della sofferenza proiettata come vittimistica.
Nella cultura italiana purtroppo gli stereotipi sono di fatto rivolti a legittimare ed imporre la sofferenza come unica alternativa e non viene offerta alcuna strumentazione di stimolo per affrontarla e migliorare il benessere individuale e familiare. Se non ci si attiene alle norme sociali previste in questo ambito si tradisce non solo la propria famiglia, ma anche l'intera società e avviene la condanna per egoismo. In una società intelligente invece, quando una persona si consapevolizza della difficoltà a mantenersi dentro un contesto familiare opprimente, avrebbe da essere socialmente sostenuta nel produrre un distacco, parziale o totale, per un periodo o per sempre a seconda della situazione, con l'intento di portare il sistema familiare verso un benessere, senza con questo implicare giudizi morali in merito alla leggerezza o meno della scelta. Dall'esterno è sempre facile giudicare e dare precetti. Spaccare un nucleo familiare viene visto come il massimo peccato, si definisce la cattiveria di far soffrire i figli, di traumatizzarli e generare loro un futuro d'inferno. Ma è vero? Certamente no. I figli avranno una vita d'inferno solo se il contesto familiare è malato, se la violenza silenziosa del vittimismo è imponente, se il dolore delle difficoltà emotive non viene affrontato in modo appropriato. Due genitori sereni, anche se separati, possono dare un ottima vita affettiva ai propri figli più di qualunque genitore frustrato ma inquadrato nella tradizione. Un figlio amato, accettato e sostenuto da una autentica comunione di relazione sarà un figlio capace, equilibrato e poco inibito nelle proprie abilità. Possiamo facilmente comprendere che quando in una famiglia ci sia una dinamica di distorsione emotiva e i comportamenti diventino legati alla sofferenza e al vittimismo, tutti i familiari ne soffrono in silenzio (nella maggior parte dei casi) e il senso di impotenza domina sovrano, avvilendo l'idea delle proprie capacità di agire ed aiutarci a vicenda. Se rientriamo a considerare i rapporti familiari inquadrati nell'idea di sacrificio e abnegazione, saranno i figli a farne le spese maggiori. Ma può la figlia/madre contrapporsi ad uno status quo di condizioni così complesse quando tutta la concezione di famiglia è in realtà associata al sacrificio idealistico? In realtà parrebbe di no. La tradizione ci dice che bisogna sacrificarsi, che per crescere bisogna soffrire, che si impara sacrificandosi, che se le cose non funzionano bisogna portare pazienza, che se hai un marito violento hai da sperare e pregare, se è difficile relazionarti con tua moglie hai da sacrificarti e sopportarla e così via. Parrebbe proprio che secondo la tradizione non si può fare proprio nulla senza divenire 'i cattivi' ed essere la fonte di tristezza e disgrazia per tutti gli altri familiari dell'entourage.
Stessa cosa vale nel caso in cui la fonte della sofferenza sia il rapporto madre/figlia, (o a volte anche padre figlio) che induce tanta insicurezza e conflittualità interiore alla neo-mamma. Spesso, più di quanto non sembri, tra le due si generano situazioni di incomprensione anche profonde basate sulla necessità di controllo che la madre tende ad esercitare. Questa attività è inconsapevole, e agita nella migliore delle intenzioni, ma on sfugge al fatto di divenire un meccanismo opprimente e negatorio per chi lo subisce. A differenza di quando queste dinamiche vengono prodotte sul figlio maschio, la femmina ne percepisce una diversa connotazione, e si genera una competizione per la figlia, mentre una gelosia per la madre. La figlia proietta una competizione perché avverte l'insicurezza delle regole materne (prodotte per preservare il proprio stato materno si tranquillità) e tenderà a adottare comportamenti più individuati, indipendenti e rassicuranti verso la madre, mentre la madre interpreterà questi aspetti della figlia come distacco, indipendenza e minaccia e diverranno inaccettabili. Le due però non riescono a razionalizzare e focalizzare chiaramente questi stati d'animo, avvertono solo il senso di disagio e la tensione reciproca alla quale danno spiegazioni superficiali e stereotipate. La competizione e la gelosia, essendo spesso dominanti nella cultura italiana, inducono quindi moltissimi dinamismi della ricerca di supremazia, la madre perché si avvale del proprio ruolo, la figlia perché interpreta il potere della madre come opprimente.
Per farne solo alcuni esempi di sorgenti tipiche delle tensioni familiari:
La madre si offre/pretende di aiutare la figlia/neo-mamma nelle faccende domestiche quando questo non è richiesto; come si inneschino dispute più o meno implicite sui precetti con cui educare i figli; come si attivino le competizioni critiche sulla cucina e cucinare; come si definiscono le varie faziosità intorno al giudizio dei vari comportamenti parentelari; come i genitori speso mettano a confronto negativamente i figli; come i figli mettano a confronto i comportamenti genitoriali con i suoceri; come siano suggerite/imposte o disposte le vacanze adatte alla neo famiglia;
Questi esempi potranno sembrare esagerati a una osservazione superficiale, ma rappresentano la tipicità delle caratteristiche del rapporto madre/figlia che possiamo osservare quasi ovunque. Per quanto la figlia/madre riesca a sviluppare strumenti critici e razionali nei confronti dei propri genitori per comprendere i loro comportamenti, a livello emotivo comunque percepirà una disconferma di sé e delle proprie abilità. A livello cognitivo viene rilevata la messa in discussione della reciproca stima e accettazione. La negatorietà familiare si configura come un rifiuto/incapacità di accordare la fiducia verso i figli. La conseguenza è la sensazione della propria generica inadeguatezza personale.
Paradossalmente, questo dinamismo viene a verificarsi non solo in presenza dei genitori, ma nel vissuto quotidiano, una volta introiettato, si manifesta come automatismo riprodotto in coloro che lo hanno subito. In altre parole possiamo dire che se nel proprio nucleo familiare abbiamo vissuto certi atteggiamenti, nel nuovo nucleo verranno rapidamente riprodotti, anche se con delle apparenti diversità del comportamento. Facendo un modello per similitudine, la madre della futura madre diviene una voce interiore onnipresente che condiziona e limita l'evoluzione del modello emotivo individuale (gamma e ampiezza delle esperienze elaborate). La futura madre si trova quindi senza alternative percorribili, e per quanto sia frustrante, troverà più economico accettare gli automatismi e le consuetudini familiari apprese e adeguarvisi. In parole povere spesso è molto più problematico cambiare le cose che adattarsi.
Cosa accade nella rappresentazione mentale individuale? Ciò che abbiamo fin ora descritto si oggettiva ulteriormente nella mente della persona fino a diventare una certezza per effetto di consuetudini competitive praticate normalmente. Si può facilmente cogliere questa dinamica, nelle spontanee attività di confronto che frequentemente vengono svolte tra le donne/madri (vale anche per i maschi, ma qui non è rilevante). Basta ascoltare qualsiasi conversazione fuori da una scuola o al parco e, al di la degli specifici contenuti cognitivi, si potrà facilmente osservare un certo tratto competitivo di confronto/valutazione. Questa attività, nasce specificamente dalla spinta rivolta a trovare punti di condivisione per avere conforto sulle proprie insicurezze. Nel fare continui paragoni le persone creano un metro di misura da utilizzare per capire il proprio valore e quanto stanno 'agendo bene'. Tuttavia, l'attività di confronto non sortisce quasi mai l'effetto desiderato, in quanto proprio per il suo gene competitivo, tende a deformare l'autenticità dei contenuti, che vengono via via plasmati con specifici obiettivi istantanei, come ad esempio mostrare di essere brave, esporre i propri status, vantarsi, porsi come vincenti e così via. L'attività di confronto, se non sostenuta da una autentica e sincera autonomia emotiva, purtroppo diviene sempre una dinamica relazionale che, al contrario del suo scopo originario, nel tempo rafforzerà le frustrazioni per effetto delle delusioni che conseguono a rapporti non autentici. Ogni persona che naviga in una competizione/confronto si aspetta sincerità, ma trova luoghi comuni, stereotipi e rappresentazioni esteriori in risposta ai quali è per forza indotta a sua volta a scivolare negli stereotipi. Ogni donna, quando viene investita da confidenze e confronti, tenderà a esercitare in qualche modo una specie di ruolo di tipo materno, adottando atteggiamenti verbali e non verbali tratti dal proprio bagaglio di schemi emotivi. Con questo complesso meccanismo si universalizza e produce gli stereotipi culturali familiari. Ovviamente, gli stereotipi che nascono da una condivisione di assetti relazionali con forti deformazioni degli schemi emotivi e comportamentali, legittimano e rendono “normali” anche gli stati di sofferenza e di pressione, dandone un connotato di ineluttabilità e di sacrificale positività.
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